Church Pocket/91. Respice stellam: la via semplice dell’Immacolata
Oltre le discussioni dei teologi, la fede semplice continua a cantare all’Avvocata dei Peccatori.
Non è raro, entrando in chiesa in questi giorni, lasciarsi prendere da un canto che sembra venire da lontano, da quelle voci semplici, solitamente di donne, che hanno custodito la fede più di molti teologi. È il Tota pulchra. Io l’ho sentito per la prima volta da bambino, nella tromba delle scale della casa materna, da mia nonna, mentre lavava i panni al lavatoio in cortile. Poi da seminarista lo aspettavo quasi con impazienza: arrivava il 29 novembre, cominciava la novena dell’Immacolata, e sapevo che prima o poi qualcuno — una signora anziana — l’avrebbe intonato, cercando, guardandomi, un cenno di consenso. E spesso finiva con quei finali un po’ sgrammaticati di un latino trasmesso e mai studiato, quelle inflessioni dialettali che non rispettano la metrica, ma che custodiscono una fede vera, che non ha bisogno di sapere le cinque declinazioni latine per essere sincera. Era come un segno: Maria anticipa e apre l’Avvento. E ogni volta, dentro di me, quel ritornello semplice riapriva lo spazio per una domanda più grande. Da seminarista mi colpiva sempre quella scena. Mi dicevo: “Ecco un altro modo con cui la teologia funziona”. Non libri complicati, né trattati tomisti. Ma un popolo che canta, anche stonato e sgrammaticato, che si affida a una Madre prima ancora di capire le categorie teologiche. Forse è per questo che l’Immacolata ha un posto così forte nel cuore dei cattolici. Prima ancora dei dogmi viene quella intuizione semplice, che ha sempre animato il Popolo di Dio: Maria è tutta bella perché è tutta di Dio. Non è una divinità a parte. Non è un’alternativa a Cristo. È la strada più corta per arrivare a Lui. Ecco perché ogni volta che ricomincia la novena dell’Immacolata, ma forse anche qualche settimana prima, io ci ricasco. Perché quel canto, così povero e così pieno, dice una verità che nessuna Nota dottrinale potrà mai togliere: Maria non è un problema da risolvere. È un dono da ricevere. Una porta che non trattiene la luce, ma la lascia passare.
E poi, da adolescente, quando a scuola ho iniziato a capire sul serio il latino, quelle parole hanno preso un peso diverso. Mi ci sono fermato sopra, quasi senza volerlo: tu advocata peccatorum… intercede pro nobis ad Dominum Iesum Christum. Non era più solo un ritornello cantato in chiesa, ma una richiesta chiara, diretta, perfino disarmante. Che Maria, prima di tutto, sta dalla parte dei peccatori. Non li assolve, non li giustifica, semplicemente li porta a Cristo. Maria non trattiene nulla per sé. Non si sostituisce, non aggiunge, non migliora. Non è un secondo canale della grazia. È la mano che ti accompagna alla porta. È la voce che ti ricorda dove guardare. È la madre che ti sospinge verso il Figlio quando tu non ci riesci più.
E allora arrivo al punto. Perché proprio su queste parole, oggi, qualcuno si agita. E quando la tradizione chiama Maria Advocata peccatorum, non la mette accanto al Figlio come un’alternativa. Dice qualcosa di molto più umano: che Maria si mette dalla parte dei peccatori perché il Figlio possa guardarli da vicino. Come una madre che accompagna il figlio a chiedere scusa: non parla al posto suo, ma gli dà il coraggio di bussare alla porta.

Forse è questo, alla fine, il punto più semplice da dire. Dentro questa stagione un po’ schizofrenica della teologia, tra titoli vietati, titoli permessi “tra amici”, documenti scritti a tavolino e libretti liturgici che dicono il contrario, a noi — Popolo di Dio — resta una cosa sola: Maria. Che alla fine, quando la teologia inciampa, resta lei. Resta la donna che, come la bussola al marinaio, nella notte, indica sempre la stessa direzione. Resta la stella del mare, che non brilla per sé ma per chi è in mare aperto. Resta la mano che ti afferra quando stai per lasciarti andare. Resta quella presenza che non risolve tutti i dubbi, ma ti impedisce di naufragare. Nonostante tutto, sappiamo ancora dove guardare. Non verso chi complica, ma verso chi indica. Non verso chi oscura, ma verso chi lascia passare la luce. E così, anche quest’anno, davanti all’Immacolata, tutto si ricompone. Nella sua trasparenza capisci cosa conta: non i nomi che le togliamo o le restituiamo, ma il fatto che lei continua a portarci a Cristo, senza mai trattenerci per sé. È così che la Chiesa, anche quando traballa, ritrova l’equilibrio. E nella sua voce antica che torna a dirci — come quel canto che veniva dalle scale della mia casa materna — che la grazia, prima ancora di essere capita, va accolta.
Per questo, in questa vigilia dell’Immacolata, mi viene spontaneo tornare alle parole che San Bernardo consegnò ai marinai dell’anima, a chi attraversa tempeste interiori e tempeste ecclesiali: «Respice stellam, voca Mariam». Guarda la stella, invoca Maria.
Non è raro, entrando in chiesa in questi giorni, lasciarsi prendere da un canto che sembra venire da lontano, da quelle voci semplici, solitamente di donne, che hanno custodito la fede più di molti teologi. È il Tota pulchra. Io l’ho sentito per la prima volta da bambino, nella tromba delle scale della casa materna, da mia nonna, mentre lavava i panni al lavatoio in cortile. Poi da seminarista lo aspettavo quasi con impazienza: arrivava il 29 novembre, cominciava la novena dell’Immacolata, e sapevo che prima o poi qualcuno — una signora anziana — l’avrebbe intonato, cercando, guardandomi, un cenno di consenso. E spesso finiva con quei finali un po’ sgrammaticati di un latino trasmesso e mai studiato, quelle inflessioni dialettali che non rispettano la metrica, ma che custodiscono una fede vera, che non ha bisogno di sapere le cinque declinazioni latine per essere sincera. Era come un segno: Maria anticipa e apre l’Avvento. E ogni volta, dentro di me, quel ritornello semplice riapriva lo spazio per una domanda più grande. Da seminarista mi colpiva sempre quella scena. Mi dicevo: “Ecco un altro modo con cui la teologia funziona”. Non libri complicati, né trattati tomisti. Ma un popolo che canta, anche stonato e sgrammaticato, che si affida a una Madre prima ancora di capire le categorie teologiche. Forse è per questo che l’Immacolata ha un posto così forte nel cuore dei cattolici. Prima ancora dei dogmi viene quella intuizione semplice, che ha sempre animato il Popolo di Dio: Maria è tutta bella perché è tutta di Dio. Non è una divinità a parte. Non è un’alternativa a Cristo. È la strada più corta per arrivare a Lui. Ecco perché ogni volta che ricomincia la novena dell’Immacolata, ma forse anche qualche settimana prima, io ci ricasco. Perché quel canto, così povero e così pieno, dice una verità che nessuna Nota dottrinale potrà mai togliere: Maria non è un problema da risolvere. È un dono da ricevere. Una porta che non trattiene la luce, ma la lascia passare.

E allora arrivo al punto. Perché proprio su queste parole, oggi, qualcuno si agita. E quando la tradizione chiama Maria Advocata peccatorum, non la mette accanto al Figlio come un’alternativa. Dice qualcosa di molto più umano: che Maria si mette dalla parte dei peccatori perché il Figlio possa guardarli da vicino. Come una madre che accompagna il figlio a chiedere scusa: non parla al posto suo, ma gli dà il coraggio di bussare alla porta.

Forse è questo, alla fine, il punto più semplice da dire. Dentro questa stagione un po’ schizofrenica della teologia, tra titoli vietati, titoli permessi “tra amici”, documenti scritti a tavolino e libretti liturgici che dicono il contrario, a noi — Popolo di Dio — resta una cosa sola: Maria. Che alla fine, quando la teologia inciampa, resta lei. Resta la donna che, come la bussola al marinaio, nella notte, indica sempre la stessa direzione. Resta la stella del mare, che non brilla per sé ma per chi è in mare aperto. Resta la mano che ti afferra quando stai per lasciarti andare. Resta quella presenza che non risolve tutti i dubbi, ma ti impedisce di naufragare. Nonostante tutto, sappiamo ancora dove guardare. Non verso chi complica, ma verso chi indica. Non verso chi oscura, ma verso chi lascia passare la luce. E così, anche quest’anno, davanti all’Immacolata, tutto si ricompone. Nella sua trasparenza capisci cosa conta: non i nomi che le togliamo o le restituiamo, ma il fatto che lei continua a portarci a Cristo, senza mai trattenerci per sé. È così che la Chiesa, anche quando traballa, ritrova l’equilibrio. E nella sua voce antica che torna a dirci — come quel canto che veniva dalle scale della mia casa materna — che la grazia, prima ancora di essere capita, va accolta.
Per questo, in questa vigilia dell’Immacolata, mi viene spontaneo tornare alle parole che San Bernardo consegnò ai marinai dell’anima, a chi attraversa tempeste interiori e tempeste ecclesiali: «Respice stellam, voca Mariam». Guarda la stella, invoca Maria.
Rubrica a cura di Pietro Santoro























