Non si può dire “Corredentrice”, ma si può erotizzare il mistero: il politicamente corretto in Teologia. La risposta a una lettrice

Cara Michela,    
domanda giusta e molto attuale. Hai sentito parlare del documento Mater Populi fidelis, Nota dottrinale del Dicastero per la Dottrina della Fede, approvato da papa Leone XIV il 7 ottobre, festa della Madonna del Rosario: è una Nota sui titoli mariani e sulla cooperazione di Maria all’opera della salvezza. In molti, come te, solleticati dalla tua domanda pubblica, mi hanno chiesto: ma allora non si può più dire che la Madonna è Corredentrice? E cosa vuol dire “Madre del popolo fedele”? Partiamo dal punto fermo: la Nota ribadisce in primis e giustamente che Cristo è l’unico Redentore e Mediatore, cioè solo la sua morte ha salvato l’umanità dal peccato e solo attraverso Lui possiamo conoscere il Padre. Su questo, nessun cattolico può avere dubbi. Secondo l’ex Sant’Uffizio oggi è più corretto evitare il titolo “Corredentrice” e dire che Maria coopera in modo singolare, sempre sotto l’unica mediazione di Cristo.
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Ma ora veniamo alla parte che forse potrebbe farci più riflettere: questa nota era necessaria? 
Proviamo ad aprire qualche linea di riflessione, partendo proprio dall’etimologia della parola incriminata. La parola latina co-redemptrix deriva dalla fusione del prefisso cum - «insieme» - e dal verbo redimo, redimis, redemi, redemptum, redimere che significa «riscattare». Indica chi partecipa con il Redentore all’opera della salvezza, non un secondo soggetto autonomo. “Cor-redentrice” non può indicare una redentrice autonoma. Senza il Redentore, il termine non funziona: il prefisso co- presuppone un unico autore principale dell’opera di salvezza, che è Cristo. Maria non aggiunge, ma partecipa. L’etimologia stessa mostra che Maria non è redentrice al pari di Cristo, ma cooperatrice nella fede. Come coautore non significa “secondo autore uguale al primo”, così corredentrice non significa “seconda redentrice”: indica solo che Maria partecipa alla redenzione con Cristo. 
E questo — più che un rischio teologico — è un dato di esperienza ecclesiale antichissimo. Il più antico inno mariano che possediamo, il Sub tuum praesidium (III-IV secolo), ci consegna la fotografia di un popolo cristiano che ha riconosciuto da sempre e dall’inizio in Maria una presenza attiva dentro la storia della fede. «Sotto la tua protezione cerchiamo rifugio (…) liberaci da ogni pericolo» non è linguaggio ornamentale: implica fiducia, relazione, affidamento. Non dice che Maria “opera” la redenzione, ma che accompagna i credenti a riceverla. È proprio questo il senso autentico della cooperazione mariana: non aggiungere qualcosa alla Croce di Cristo, ma rendere accogliente il cuore di chi a Cristo si rivolge. Ma il popolo cristiano, questo, lo sapeva sin dall’inizio, lo ha capito da sempre — prima ancora che lo spiegassero i teologi. La “corredenzione” non è una funzione di un secondo Salvatore. Indica piuttosto la cooperazione unica e subordinata di Maria all’opera del Figlio: il suo “sì” all’Incarnazione, la presenza sotto la Croce, l’intercessione materna come alle Nozze di Cana. Solo Cristo salva e media la grazia; Maria non aggiunge nulla alla Croce, ma partecipa per fede e obbedienza. È dottrina solida parlare di associazione e intercessione (LG 56, 58, 60-62).  Chiariamoci: Dio avrebbe salvato lo stesso gli uomini anche senza quel “si” dell’Annunciazione ma ha scelto di salvare gli uomini coinvolgendo una persona concreta, una donna, una storia. Questo è il senso dell’Incarnazione: Dio entra nella carne attraverso un sì umano. Solo in questo senso può essere “corredentrice”. Non aggiunge nulla all’unica mediazione di Cristo; la accoglie, la serve, la rende prossima.  
E allora, era davvero necessaria questa Nota? Probabilmente no.
La Nota Mater Populi fidelis nasce sicuramente – spero – con intenzioni nobili, ma il suo profilo è quello di un ennesimo ecumenismo annacquato. Nel tentativo di non urtare la sensibilità luterana, all’insegna del teologicamente ecumenico come teorizzazione ecclesiale del politicamente corretto, il documento svuota la mariologia cattolica della sua forza teologica. Quando dico “teologicamente ecumenico” non parlo del vero ecumenismo, quello che nasce dall’ascolto reciproco e dalla preghiera. È qualcosa di diverso: una versione cattolica del “politicamente corretto”. Cioè un modo di parlare di Dio, della fede e dei santi così prudente, così levigato, da non urtare nessuno. Una teologia che non sbaglia, ma non dice più nulla. Dove le parole vengono scelte non per dire la verità, ma per non creare problemi. È un ecumenismo che teme il conflitto e così finisce per togliere forza alla fede. La Nota insiste giustamente sull’unicità di Cristo, ma lo fa con accenti quasi luterani: nel timore di compromettere la centralità del Redentore, finisce per escludere ogni vera cooperazione dei santi e per collocare Maria ai margini del mistero salvifico, come presenza che accompagna più che partecipa. Rigetta i titoli tradizionali di “Corredentrice” e “Mediatrice”, non perché falsi o eretici, ma perché “non opportuni” al dialogo interconfessionale. Riduce la Vergine a “prima credente”, modello di fede, o come diceva Karl Barth – pastore protestante – a una Maria immagine di una Chiesa che ascolta la Parola ma non si lascia più usare come strumento della Grazia del Padre. Il risultato è una mariologia minima, compatibile con la Riforma Luterana ma povera di cattolicità. In nome dell’unità, si è scelta la semplificazione. Ma un dialogo che diluisce la verità non unisce: confonde.  Sant’Ignazio direbbe così: «Lo spirito di Dio dona chiarezza e pace; lo spirito del Nemico porta confusione e turbamento» (Esercizi Spirituali, nn. 315-317). Quando qualcosa lascia nel cuore nebbia, agitazione o divisione, non viene dal Padre. Maria non divide i credenti; li educa a guardare al Figlio. Toglierle la voce non favorisce l’ecumenismo: lo svuota del suo cuore.
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Infine, il nuovo titolo “Madre del Popolo fedele” non inaugura una nuova dottrina. Non si sono inventati nulla, né linguisticamente, né teologicamente. È, in fondo, l’eco moderna di ciò che la tradizione romana chiamava “Maria, Salus Populi Romani”: la Madre che custodisce la fede del popolo, che non salva ma accompagna verso la Salvezza. È la stessa immagine, solo con uno sguardo più ampio. Dal popolo di una città, al popolo di Dio disperso nel mondo. 
Curioso – e concludo: si giudicano “inopportuni” i titoli che per tanti secoli hanno nutrito la fede cattolica, ma restano “opportune” le categorie erotiche con cui certi teologi parlano del corpo e di Dio — come lo stesso Prefetto del Sant’Uffizio nel suo osceno libro “La passion mistica”. Il cardinale che ha osato parlare di “orgasmo sacro” ora teme la parola “Corredentrice”. È questo il segno dei tempi: si può erotizzare il mistero, ma non difendere Maria — semmai ne avesse bisogno. È il segno di una Chiesa che ha paura della propria dottrina, ma non delle mode. Maria, che si è fatta serva, viene ridotta a icona sociologica. E così il linguaggio si purifica, risciacqua i panni nel politicamente corretto dell’ecumenismo, ma la fede si impoverisce. Meglio un popolo che invoca la Corredentrice che una teologia che arrossisce davanti alla propria Madre.
Pietro Santoro
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