Bernaga: inferno in paradiso?


Ad ogni foto rilanciata dai media, ad ogni titolo che credeva di essere intelligente e riusciva persino blasfemo (“Inferno alla Bernaga”), ieri sera in chi crede, in Dio o nella letteratura, si affacciavano le parole di un addio: “Dio non turba mai la gioia dei suoi figli se non per prepararne loro una più certa e più grande”. 
È Lucia a singhiozzarle, alla fine del capitolo ottavo dei “Promessi sposi”, nel mesto addio ai suoi monti. Era il novembre del 1628. Poche settimane prima, nel mese di settembre, il cardinal Federigo Borromeo benediceva la posa della prima pietra del monastero della Bernaga che ieri sera è stato distrutto dalle fiamme.
Ad ogni foto rossa in cui il fuoco divorava mura sacre, ieri sera in chi ama la storia e l’arte si affacciavano i ricordi di quell’altro incendio che nel 2019 devastò la cattedrale di Notre-Dame a Parigi.
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Perché disgrazie di questa portata simbolica, non umana (qualche ferito a Notre-Dame, molte persone scosse allora come oggi ma nessuna vittima), suscitano una commozione immensa, unanime, spaesata?
Si dice da subito che si ricostruirà, che tutto tornerà come prima anzi più bello, più forte, più carico di senso anche in virtù di questa prova. Si sa che sono tutte menzogne, perché non esiste ferita che non lasci traccia. Sono i dolori che ritornano inaspettati sotto le cicatrici nascoste, sono soprattutto le domande, non sul cosa sul quando sul come. Sul perché. Che non è la ricerca di una spiegazione pratica per la causa scatenante. Il cortocircuito è di natura ontologica, non elettrica: perché Dio non riesce a custodire e proteggere nemmeno i luoghi in cui si dovrebbe essergli più vicini?
A cosa servono, allora?
Siamo tutti appiattiti sull’utilità contingente di un mondo in cui la preghiera non produce alcun effetto misurabile, e l’esistenza di ventuno donne che scelgono di ritirarsi dal mondo e dedicare ad essa la loro intera esistenza sembra ininfluente, anacronistica, sproporzionata rispetto alle forze impiegate per domare l’incendio che le ha aggredite.
A cosa serviva, serve e servirà il monastero della Bernaga?
Perché per me, da sempre, è stato quei pochi metri di sollievo ai muscoli delle gambe dopo il drittone del Lissolo fatto in piedi sui pedali e prima che la strada ricominci a salire nel bosco. Vederlo affacciarsi sulla destra alla svolta in cima significava tirare un sospiro, prendere la borraccia, dire anche questa volta ce l’ho fatta.
È un pensiero molto prosastico, lo ammetto, il primo che mi è venuto in mente ieri sera quando in casa mi chiedevano dove fosse questo monastero. Sul Lissolo, ho detto. Che è salita e ascesi, esercizio fisico di purificazione più che di sfida, assolutamente inutile dal punto di vista pratico e persino ontologico, eppure così rigenerante, solitario e comunitario insieme, meccanico e ripetitivo, liberatorio nella sua ciclica ricorsività, rituale nelle sue divise, persino scaramantico in alcune abitudini, come il ciclismo, come la preghiera.
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Quando la coppa Agostoni transita sul Lissolo, giornalisti sciocchi di solito scrivono: “La corsa si infiamma sul Lissolo”, “la battaglia si accende sulle rampe”. E non capiscono che il lessico militare non ha nulla a che vedere con lo sport, così come il lessico apocalittico distrugge i simboli di pace ancora più del fuoco che ne ha bruciato il tetto e le mura.
Di tante cose che accadono nel mondo si fatica a trovare il senso, e alcuni incendi sono talmente grandi che pare quasi infantile commuoversi per quattro mura antiche e rimanere sordi alle urla di tanti innocenti che in ogni angolo del mondo subiscono sofferenze assai più infernali e del tutto ingiustificabili. 
Però ci attacchiamo a queste nostre cose semplici: le nostre abitudini, i ricordi, la sicurezza che qualcuno lassù pregasse per noi, lo facesse anche al nostro posto, lo stia facendo ancora adesso anche se la sua chiesa non c’è più, lo farà domani e dopo ancora, in modo silenzioso e ritirato, perché “i guai vengono bensì spesso, perché ci si è dato cagione; ma che la condotta più cauta e più innocente non basta a tenerli lontani; e che quando vengono, o per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce, e li rende utili per una vita migliore”. Che è sempre Lucia a dirlo.
Stefano Motta
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