La Valletta: 40 giorni in ospedale col Covid, il 4 maggio lo sconfigge e un anno dopo riceve il vaccino. La storia di Carola

Carola Manzoni
Il 4 maggio del 2020 concludeva in vittoria la sua battaglia contro il coronavirus dopo 40 giorni di ospedale. Oggi a distanza di un anno ha ricevuto la dose di vaccino. Determinata e caparbia, nonostante il cammino difficile che la vita, già prima della pandemia, le aveva posto di fronte Carola Manzoni non si è mai arresa, ha stretto i denti, ha fatto appello a tutta la sua forza, ha reagito ed è tornata ad apprezzare le gioie quotidiane, a partire dalla vicinanza di amici e famiglia.


51 anni, residente a La Valletta brianza, consigliera della sottosezione di Merate dell'Unitalsi (associazione che ha giocato un ruolo fondamentale nella sua vita, per ritrovare forza e coraggio) Carola è su una sedia a rotelle dall'adolescenza a causa di una malattia invalidante. La sua storia è stata raccontata nell'appassionante libro di Vittore De Carli "C'è una veste bianca anche per noi" che raccoglie 16 testimonianze di persone che hanno contratto il coronavirus e che hanno combattuto uscendone vittoriose, non senza fatica e dolore.
Il quotidiano di Carola è sempre stato fatto di alti e bassi e il 27 marzo dello scorso anno una prova pesantissima le si profila all'orizzonte.

Da alcuni giorni, infatti, non riesce a muoversi dal letto: una tosse insistente, molto forte con difficoltà respiratoria le fa capire che la situazione è preoccupante. Chiama così il numero di emergenza e dopo i primi accertamenti sul posto da parte dei sanitari con controllo di febbre, pressione e saturazione, si decide per il trasporto in ospedale. Erano i giorni più caldi e drammatici della pandemia, con l'andirivieni di ambulanze dalle case dei malati fino in ospedale, delle Rsa chiuse ai parenti, dei luoghi pubblici blindati, delle lunghe file fuori dai supermercati per fare la spesa con obbligo di guanti e mascherine. E soprattutto di malati che venivano portati negli ospedali e si trovavano completamente soli, senza la possibilità di essere accuditi da un famigliare, con infermieri e medici bardati da capo a piedi con solo gli occhi scoperti che lasciavano intravvedere un profondo senso di smarrimento e paura.

Carola entra in pronto soccorso al Mandic il 27 marzo e lì inizia un capitolo della sua vita che mai dimenticherà. La prima cosa che nota sono le decine di persone in sala di attesa, ansiose di avere un'assistenza, di ricevere un aiuto per alleviare la tosse e trovare un po' di ossigeno con cui alimentare i polmoni. La sofferenza si tocca con mano. E così anche la paura. "Mi sono sentita morire, ma soprattutto molto sola nella prospettiva di affrontare tutto senza la mia famiglia" ha raccontato "dopo alcuni esami più approfonditi, infatti, mi viene comunicato il mio ricovero per polmonite e inizio di coronavirus. Dentro di me continuavo a ripetermi che era tutto un errore; il mio medico di condotta mi stava curando per una semplice influenza. La notizia del ricovero spegne tutte le mie energie, annulla la mia persona, e mi lascia in balia di medici e infermieri". Le lacrime in più occasioni le rigano il volto e il senso di solitudine si fa acuto, devastante. Una situazione comune a migliaia di persone che in quei mesi hanno vissuto sulla propria pelle e da una camera di ospedale la pandemia.

Dal pronto soccorso Carola viene trasferita in pediatria e poi in chirurgia, dove iniziano a "bombardarle" il corpo con flebo, antibiotici per via orale e tutto quanto in quei momenti si riteneva potesse utile per farla stare meglio. "Mi ricordo che quando mi hanno dato l'ossigeno, ripetevo ogni giorno al dottore "ma io devo morire?". Pian piano però Carola ritrova la forza, grazie anche alla vicinanza e alle premure del personale sanitario e reagisce. "Solamente il sorriso degli infermieri che arrivavano in camera mia quando avevo bisogno di loro e a loro invece serviva il mio braccio per mettere la flebo o farmi il prelievo di sangue, rompeva quel silenzio che da quando ero entrata in ospedale mi faceva compagnia" ha proseguito Carola il cui nome di battesimo è Carolina "Devo dire grazie al dottor Marco Confalonieri che mi ha supportata, curata alla grande ed anche sopportata in quelle settimane. E grazie inoltre a tutti gli infermieri del reparto di chirurgia e ortopedia che mi hanno fatto trascorrere quei giorni come se fossi una regina".

Durante quella lunga degenza dove i minuti sembrano ore che non passano mai e sono scanditi dal rumore dei caschi di ossigeno, dai sanitari che entrano ed escono dalle camere, dalle terapie somministrate e dove il silenzio diventa assordante, Carola si chiede il perchè di tutta questa sofferenza, di quel dolore che la sta portando alla deriva. Il perchè di questo virus che ha paralizzato un mondo intero. "Questo periodo è stato faticoso, difficile, molto duro, ma altrettanto importante e costruttivo; il coronavirus senza che glielo chiedessi, mi ha "regalato" del tempo. Tempo per dare la giusta importanza alle cose, e soprattutto alle persone che mi sono vicine nonostante le tante avversità che la vita mi pone davanti". Legatissima ai suoi cari, Carola ricorda molto bene quando cade nello sconforto perchè un'infermiera che doveva cercarle la vena nel braccio per una flebo dopo un'ora sta per desistere e teme di dover passare per la pianta dei piedi. "A quel punto ho invocato il mio papà morto da quattro anni, e lui è venuto in mio aiuto, alleviando il mio dolore e facendo trovare la vena all'infermiera. Ho avuto tanta paura che mi si formasse qualche piaga da decubito, nello stare sempre nel letto, ma fortunatamente non ho avuto nessun problema di questo tipo".

Una testimonianza profonda e commovente, che tanto ha da insegnare a chi il coronavirus l'ha solo letto o visto riflesso nelle sofferenze degli altri e che magari oggi si lascia andare a comportamenti poco rispettosi e pericolosi. "Con il senno di poi, mi sono data la risposta alla domanda che mi ero fatta inizialmente sul perchè del dolore e di tutto quello che mi era capitato: non importa quello che io ho ma è come sono fatta dentro che dà senso alla mia vita, e qui entrano in gioco gli affetti a me più cari. Loro sono lì per aiutarmi a dare una maggior importanza a questo mio senso, perciò non mi resta altro da dire, se non grazie a tutti di esistere nella mia vita".
S.V.
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