La Valletta: padre Marco Turra racconta la vita all'ospedale di Ikonda (Tanzania), guardando con gratitudine alle sue origini
Le offerte raccolte durante la ‘Quaresima di fraternità’ in questo difficile 2021 dalla Comunità Pastorale di Sant’Antonio Abate di La Valletta Brianza sosterranno un grande progetto di solidarietà. Saranno infatti devolute all’ospedale di Ikonda, in Tanzania, dove da ormai 12 anni si trova padre Marco Turra, originario della parrocchia di Rovagnate, missionario presso i Padri della Consolata.
Il cartello esposto fuori dalla chiesa di San Giorgio in Rovagnate
A sinistra padre Marco Turra
Questa raccolta è stata l’occasione per chiedere a padre Marco di ripercorrere la sua storia e il lungo cammino che l’ha condotto verso l’Africa, guardando anche al passato e al suo paese natale. “L’obiettivo della nostra missione ad Ikonda è quello di portare avanti il progetto iniziato più di 50 anni fa dai missionari della Consolata, che volevano offrire le migliori cure possibili a prezzi accessibili a tutti, anche ai più poveri” ha raccontato, descrivendo il presidio ospedaliero fondato nel 1963, che ogni giorno accoglie persone da ogni parte della Tanzania che affrontano lunghi e logoranti viaggi, già sofferenti per la malattia e la frustrazione di essere passate invano da altre strutture prima di quella della Consolata.
“Ad oggi - continua padre Marco - i pazienti ricoverati sono ormai stabili sui 350, con punte di oltre 400 nei periodi più intensi.” I reparti sono specializzati in chirurgia generale, ortopedia, urologia e medicina, mentre un ginecologo terminerà proprio quest’anno la formazione. A ciò si aggiunge anche l’ottima attrezzatura nell’ambito della diagnostica radiologica e di laboratorio. Raccontando delle dotazioni dell’ospedale, un pensiero va immancabilmente a tutti quei missionari che prima di lui si sono dati da fare, tra cui padre Sandro Nava cernuschese e la dottoressa Manuela Buzzi, che per oltre 15 anni hanno operato ad Ikonda, lasciandoci la loro impronta indelebile. Attualmente, insieme a padre Marco ci sono padre William Mkalula, tanzaniano, padre Luis Zubia, spagnolo, e un francescano di Bergamo, padre Riccardo Rota Graziosi. “Le difficoltà maggiori che incontriamo sono ovviamente la fatica di mantenere e sviluppare tutto questo” ammette il sacerdote. C’era infatti un gruppo d’appoggio che sosteneva l’ospedale, ora assente, e l’obiettivo dei padri della Consolata è quello di far sì che il peso della situazione difficile non ricada troppo sui pazienti.
Alle lotte che quotidianamente si combattono nel distretto di Makete, l’anno scorso si è aggiunta quella contro il Coronavirus, come nel resto del mondo. “La Tanzania è un paese in buona crescita economica dove si è sempre potuto lavorare abbastanza tranquillamente come missionari” spiega padre Marco. “Certo, le sfide non mancano, c’è ancora molta povertà e settori come l’istruzione e la salute sono ancora insufficienti ai bisogni della popolazione, soprattutto nelle zone rurali. Ma il progresso a cui ho assistito in questi ultimi 15 anni è notevole”. Da questo punto di vista sembra che, fino ad ora, la pandemia non abbia condizionato lo Stato più di tanto. Il paese, infatti, la sta affrontando con le proprie armi: la popolazione, soprattutto quella più istruita, cerca di seguire le precauzioni fondamentali, soprattutto la distanza e il lavaggio delle mani. La mascherina non è stata sconsigliata, anche se purtroppo è soggetta al rischio di usi impropri.
“Noi in ospedale la indossiamo tutti e ci sembra che la cosa ci stia aiutando. Molti ricorrono anche a rimedi tradizionali per la prevenzione come limone, zenzero e altri, e sembra che anche questi aiutino. Per le fasi acute, le polmoniti per intenderci, se vengono prese in tempo molti riescono a guarire, se invece i pazienti raggiungono le strutture sanitarie già di molto desaturati, è particolarmente difficile che si riprendano. Ma si parla di pochi casi”. In alcune zone del paese, soprattutto nelle città, corre voce che i funerali siano in aumento, anche se è difficile avere dati precisi.
I primi casi sospetti, ricorda padre Marco, hanno iniziato a presentarsi nel mese di aprile dello scorso anno. “Subito li abbiamo isolati e curati come potevamo. Qui non si è potuto fare un tracciamento come in Europa, dunque ci siamo concentrati soprattutto sulle fasi acute. La prima ondata è durata fino a giugno dell’anno scorso, mentre la seconda è iniziata a gennaio ed è ancora in corso, anche se da qualche settimana sembra che ci sia un sensibile miglioramento". All’ospedale di Ikonda la situazione è ancora critica e giustifica uno stato d’allerta, ma è tutto sommato stabile. Un mese fa, il quadro sembrava particolarmente grave, poiché erano presenti circa trenta pazienti sotto ossigeno, e l’impianto di resistenza è stato messo a dura prova. Fortunatamente, è riuscito a reggere. È stato proprio durante quei giorni difficili che padre Marco e i suoi compagni di missione hanno visto spegnersi padre Guido Douglas e Fratel Sandro Bonfanti, originario di Robbiate, scomparso per delle complicanze dovute al virus. “Per noi è stato un momento molto duro, ma sembra che ora le cose vadano un po’ meglio”.
Pensando a La Valletta Brianza, la gratitudine che traspare dalle parole del sacerdote è molta: “Sono contento che questo progetto di solidarietà mi abbia fatto riprendere i legami con la comunità in cui sono cresciuto nella fede. Noi siamo sempre lontani e non è facile. Di Rovagnate ho i ricordi più belli, perché tutta la famiglia era unita, finchè io non sono entrato in seminario a 19 anni, ero giovane e ho ricevuto tutto per crescere bene, dalla famiglia, dalla scuola, dalla parrocchia, la Polisportiva… Sono fortune che diamo per scontate, ma dopo tutti questi anni spesi qui per me hanno assunto ancora più valore. Io non sono brianzolo d’origine, ma sono estremamente riconoscente per il contesto in cui sono cresciuto e anche per il poco che ho potuto dare a scuola, in parrocchia e nella squadra di calcio”. Con un sorriso, padre Marco ricorda anche degli sforzi fatti per imparare il dialetto, che in casa sua non si parlava: “In molti casi facevo ridere un po’ come quando sono arrivato in Tanzania e non sapevo lo Swahili”.
Con gratitudine e riconoscenza, padre Marco Turra conclude: “Che dire? Qui a Ikonda abbiamo trascorso momenti difficili, non solo a causa della pandemia, ma sono molto contento che tutto questo ci abbia unito ancora di più. Sembrava che questa pandemia fosse la fine della globalizzazione con le chiusure e le restrizioni, invece ci sentiamo ancora più uniti da uno spirito che vuole attraversare con forza e voglia di vivere anche questo momento. In fondo è stata una prova che ci ha portato ulteriormente a capire che amore e solidarietà sono più forti e visibili di questo nemico invisibile che ci sta mettendo tanto alla prova.”
G.Co.