Olgiate: la storia di Peppino Bonalume, schiavo di Hitler che fece ritorno a casa
Numero 235578. Era così che i tedeschi chiamarono Giuseppe Bonalume appena mise piede nel campo di concentramento di Zittau, lungo il confine tra la Germania e l'allora Cecoslovacchia.
Ai nazisti non importava che quel giovane militare italiano veniva in realtà soprannominato Peppino dai suoi amici, e nemmeno che fosse un esperto disegnatore meccanico e un abile pugile. Secondo il figlio Gianpierluigi, per i tedeschi, per Hitler, non fu nient'altro che uno schiavo.
Peppino Bonalume
Lo ha scritto a chiare lettere anche nel libro dedicato al viaggio che il padre compì tra il 1943 e il 1945 nella Germania nazista, rivolgendo quelle pagine alla nipote Marta, una ragazzina di terza media, e a tutti i suoi coetanei.
La storia che Gianpierluigi Bonalume ha ricostruito meticolosamente negli anni riguardante tutto ciò che capitò al padre Peppino in tempo di guerra è stata anche protagonista dell'iniziativa organizzata nella serata di sabato 26 gennaio dal Comune di Olgiate presso la sala civica di viale Sommi Picenardi. Oltre che dal racconto di Bonalume, l'evento è stato riempito dagli intermezzi musicali del trio composto da Antonello Brivio, Francesco Motta e Massimiliano Malavasi, dagli ottoni di Matteo Anghilieri, Damiano Erroi, Alessandro Castelli e Massimiliano Crotta e dalle voci alpine di Renato, Anselmo e Vito Boffelli, Norberto e Fabrizio De Cani, Giorgio Monzani e Daniele Brivio.
L'assessore Matteo Fratangeli
La storia del sartiranese Peppino è utile soprattutto a realizzare che cosa fu la Shoah, immaginarla con la propria mente, e soprattutto non rendere vana la morte di oltre 50mila italiani nei campi di concentramento. Perciò è bene raccontarla dal principio proprio come ha fatto il figlio Gianpierluigi sabato sera ad Olgiate. ''Il contesto in cui nacque mio padre era quello contadino, dove le famiglie conservavano ancora un'atavica paura di perdere il padrone, che significava perdere anche la terra e una casa'' ha spiegato Bonalume.
VIDEO
''Quando incontro i ragazzi delle medie spiego anche loro come erano composte le case, un tempo, e rimangono meravigliati. C'era una stanza al pian terreno con un grande fuoco, un tavolo, una cassapanca dove si mettevano i pochi oggetti che si avevano e poi un armadio per le stoviglie. La camera da letto era solitamente al primo piano, ed era un'unica stanza dove dormivano tutti i numerosi figli della famiglia. Mio padre era il terzo figlio, aveva due sorelle più grandi e due fratelli più piccoli. Essendo il primogenito maschio, mia nonna fece fatica a convincere il nonno a farlo studiare. Fece prima l'asilo dalle suore e poi le elementari fino alla terza. La quarta, dopo le pressioni di sua madre, poté farla a Pagnano, e tutte le mattine doveva partire a piedi. L'anno successivo, per la quinta, dovette raggiungere addirittura Merate, dove andavano i figli dei signori. Perciò i genitori furono costretti a comprargli un paio di scarpe''.
Gianpierluigi Bonalume
Gli studi svolti, seppure non gli consentirono di aiutare il padre nel campo, offrirono al giovane Peppino di trovare un buon lavoro come falegname a Cernusco. ''Lavorava 10 ore al giorno e doveva compiere il tragitto ovviamente a piedi'' ha proseguito il figlio. ''Questo non gli impedì di frequentare una scuola serale a Milano. Era un professionale dove conobbe alcune nozioni di meccanica, disegno e matematica. Più tardi nella sua vita, mio padre ebbe a dire che quegli insegnamenti gli salvarono la vita''.La medaglia d'onore ricevuta da Bonalume
L'esistenza di Peppino cambiò radicalmente, come quella di tutti gli italiani, il 10 giugno del 1940. Dopo quel giorno nulla sarebbe stato uguale a prima. Allora il sartiranese era un giovane già realizzato. Praticava la boxe, lavorava e si era persino comprato una bicicletta. ''Tutti i negozi poterono rimanere chiusi e a Sartirana si riunirono in un esercizio pubblico che aveva la radio, alla quale furono collegati degli altoparlanti. Benito Mussolini dichiarò guerra agli Alleati. Chiunque partiva per il militare, allora, sapeva che stava andando in guerra''.
Al centro il maestro Antonello Brivio
Quella chiamata, per Peppino, arrivò esattamente per il 18 agosto del 1943. Si recò nella caserma di Vercelli e prese parte a delle esercitazioni. L'8 settembre 1943, pochi giorni dopo il suo arruolamento, fu costretto a salire su un treno che lo portò fino in Germania. ''Quando mio padre partì per il militare sapeva che già sette persone del suo paese erano morte in guerra.Il giorno che fu deportato, stando a quanto raccontava, si era esercitato come sempre sul fiume Sesia per fermare l'avanzata degli angloamericani. A nessuno di quei militari era ancora arrivata notizia dell'armistizio firmato da Badoglio con gli alleati. Quando tornarono in caserma, furono fatti prigionieri dai tedeschi. L'indomani mattina furono costretti a raccogliere i loro beni, uscire sotto minaccia delle armi ed incamminarsi fino alla stazione ferroviaria di Vercelli. In pochi riuscirono a fuggire. Furono fatti salire a gruppi di 40 persone su 30 carri bestiame''.Scampò sempre alla camera a gas, finché non gli riuscì di raggiungere gli americani che ormai avevano in pugno i tedeschi. Da Plzen raggiunse in treno Verona, passando da Augusta, Monaco e altre località come Innsbruck, tornando a Merate in autocarro. Ogni giorno era il giorno buono per raccontare ai propri figli quella storia. Negli anni, il figlio Gianpierluigi è riuscito a mettere insieme, pezzo dopo pezzo, tutte le tappe che contraddistinsero la prigionia del padre e farne un libro, ''Viaggio per non dimenticare'', presentato sabato sera e dedicato in particolare ai più giovani.
A.S.