Baiguini: nei 7 mesi del sequestro di Massimo ho conosciuto Arialdo Villa, un uomo, forte, leale, coraggioso che ha avuto successo nel lavoro ma ha anche molto sofferto con dignità

Ha conosciuto Arialdo Villa in uno dei momenti più drammatici e difficili della sua vita, quando il destino del figlio era appeso a una valigia di banconote e alla sfrontatezza di una banda di delinquenti pronti a uccidere a bruciapelo.
Ma in quegli interminabili 7 mesi, da novembre 1987 a giugno 1988 ha incontrato un uomo d'altri tempi, schietto e concreto come i brianzoli puri, disponibile e alla mano, che in quelle lunghe chiacchierate della domenica mattina, si confidava raccontando i dettagli avuti dai rapitori nella settimana precedente, pur sapendo di avere davanti un cronista con il quale aveva siglato, senza mai dirselo, un patto di serietà e rispetto.
Angelo Baiguini era ai tempi un giovane cronista del settimanale cittadino, agli inizi della sua carriera che più avanti lo porterà a diventare direttore di una serie di testate, catapultato su un fatto di "nera" per eccellenza. E ritrovatosi, senza la volontà del cronista di indagare, chiedere, "strappare" informazioni al suo interlocutore, depositario delle confidenze e dei racconti di uno dei protagonisti della storia, il papà del sequestrato.

"Pioveva a dirotto quella sera. C'era un'acqua che faceva paura. Io ero a casa e ad un certo punto mi telefona un amico che mi dice di correre a Cicognola perchè era successo qualcosa di grosso. Ho chiamato subito l'indimenticato Alessandro Albani e ci siamo precipitati nei pressi della chiesetta di San Giuseppe. C'era un dispiegamento di forze dell'ordine enorme. Lungo il vialetto che dalla statale conduceva alla villa della ex moglie di Arialdo c'erano delle auto. Una era quella di Massimo Oreste Villa, il figlio di Arialdo. Era stato bloccato da due mezzi, uno sceso dalle scale in pietra e l'altro salito dalla provinciale. Lo avevano immobilizzato, caricato nel baule ed erano spariti, facendo poi ritrovare bruciata l'auto usata per la fuga, nei boschi di Perego. Noi, lavati da cima a fondo abbiamo subito capito che eravamo nel pieno di un sequestro di persona che avrebbe segnato anche la nostra storia di cronisti". L'incontro di Baiguini con l'allora patron della Beton, colosso dell'edilizia dal fatturato di miliardi, avviene qualche giorno successivo ai fatti di Cicognola mentre le indagini dei carabinieri si fanno serrate così come la raccolta di informazioni e immagini del rapito da parte degli stessi giornalisti, armati di ingombranti macchine fotografiche per nulla istantanee. "Arialdo Villa si è mostrato fin da subito una persona di una levatura altissima. Io lo conoscevo in quanto imprenditore e personaggio noto in città e nel mondo dell'economia ma i miei rapporti con lui si fermavano lì. Quando l'ho approcciato, nonostante fosse in uno dei momenti più devastanti della sua esistenza, c'è stata un'empatia immediata. Ci siamo intesi e così abbiamo iniziato a sentirci con costanza. Tutte le domeniche mattina di quei sette mesi sono andato a casa sua, fermandomi a chiacchierare. Era un momento forse distensivo per lui. Mi aggiornava sui dettagli del sequestro, sui messaggi che l'anonima gli faceva pervenire, sulle indagini e le richieste dei sequestratori. C'era il silenzio stampa sulla vicenda, quindi non potevo scrivere nulla. Ma lui mi accoglieva tutte le domeniche, era un appuntamento fisso, penso che lo aspettasse anche perchè era un modo per sfogarsi, era un uomo abbastanza solo in quel periodo e sapeva che, per un patto di serietà non scritto e nemmeno mai detto, non avrei fatto cenno di nulla e non avrei violato quell'accordo".

Arialdo Villa e Angelo Baiguini

I mesi passano nel greve silenzio dei sequestratori, fatto di messaggi cifrati sul Corriere della Sera, di appelli della famiglia per Massimo che soffriva di una patologia e aveva bisogno di medicinali, fino a quando arriva l'indicazione perentoria dei rapitori: Arialdo deve mettersi alla guida di una Fiat 500, partire da Merate e raggiungere Vibo Valentia con una valigia contenente tre miliardi di lire. "L'intera operazione era monitorata da carabinieri e polizia. Quando io e il collega Nicola Panzeri abbiamo saputo del viaggio non ci abbiamo pensato due volte, siamo saliti sul primo aereo e siamo andanti in Calabria. Arialdo con la moglie alloggiava all'hotel 501, indicato dai sequestratori, mentre io e il collega siamo finiti in un alberghetto a mezza stella. Abbiamo noleggiato un'auto e ci siamo presentati all'hotel. Quando lui mi ha visto mi ha accolto con affetto, sempre disponibile e cordiale. Avevamo trascorso tantissime ore assieme nelle nostre conversazioni della domenica mattina, giorni interminabili dove lui si era aperto e io ascoltavo, come fossi uno di famiglia. Come cronista memorizzavo tutto, ma non ho mai violato quel patto. La strategia dei sequestratori era sfiancante. Ogni giorno Arialdo partiva alla sera quando era buio e macinava chilometri a bordo della 500, con la valigia del denaro sul sedile. Viaggiava, viaggiava percorrendo strade e quartieri per nulla raccomandabili, in condizioni tutt'altro che semplici e sicure. Poi tornava senza avere avuto alcun cenno, restituiva la valigia alla polizia e si attendeva il giorno successivo per il nuovo appuntamento. Dopo quattro-cinque giorni i sequestratori hanno contattato Arialdo e gli hanno detto di tornarsene a casa con i soldi e di attendere nuove disposizioni. A quel punto anche io e il collega Nicola siamo rientrati".

Ma tempo una settimana e arriva una seconda chiamata con indicazioni precise e identiche: una Fiat 500, una valigia con tre miliardi in contanti e il viaggio da Merate in Aspromonte in solitaria. "A quel punto abbiamo preso di nuovo l'aereo e siamo tornati a Vibo Valentia. Il copione era lo stesso: Arialdo si metteva in macchina e girava a vuoto nella speranza di ricevere un segnale. Ma niente fino a quando un giorno, mentre eravamo in attesa all'hotel 501 e l'elicottero delle forze dell'ordine non si era alzato in volo per il consueto monitoraggio, vediamo tornare la Cinquecento con Arialdo, senza la valigia. Qualcuno lo aveva fermato, aveva preso i soldi e gli aveva detto di tornare in albergo ad aspettare. La situazione pareva essere a una svolta.".

Nicola Panzeri, Massimo Villa e Arialdo

E infatti tempo un giorno e arriva la telefonata alla reception dell'albergo. "Vediamo Arialdo che si fionda alla cabina e, lui che in tutti quei giorni aveva mantenuto un autocontrollo e una pacatezza esemplari, scoppia in un urlo di gioia "L'hanno liberato, Massimo è libero". In una manciata di minuti io e il collega Nicola ci precipitiamo in auto e corriamo a rotta di collo, sotto un diluvio universale, alla caserma dei carabinieri dove il ragazzo (allora aveva 29 anni, ndr) era stato portato da alcune persone che lo avevano trovato sulla strada del santuario. Siamo arrivati praticamente assieme ad Arialdo e abbiamo vissuto il momento dell'abbraccio. Una gioia incredibile, un'emozione. Ricorderò sempre la sua felicità, aveva due occhi che perforavano il muro, vispi, espressivi. Massimo invece aveva la barba lunga, lo sguardo perso. Aveva vissuto 200 giorni in una tenda sull'Aspromonte, in mezzo alla boscaglia, con la neve, senza alcun conforto e probabilmente con i rapitori che gli inculcavano in testa che il padre non voleva pagare il riscatto e quindi lo avrebbero ucciso".

La grande festa in piazza

Il ritorno a Merate è una festa. La città che per mesi era stata col fiato sospeso, dove tutte le parrocchie pregavano quotidianamente affinchè "il Signore tocchi il cuore duro dei sequestratori e liberi Massimo riportandolo alla sua famiglia", dove decine di militari avevano battuto incessantemente ogni pista alla ricerca di un indizio utile, ora poteva fare festa. "Dopo l'accoglienza in piazza sono andato a trovare Arialdo in azienda, ricordando quei giorni e le nostre chiacchierate della domenica. Abbiamo sempre mantenuto un rapporto di stima reciproca e di grande rispetto. È stato un uomo che ha sofferto molto e ha pagato un prezzo alto, altissimo. Ma ha affrontato tutto con grande determinazione, dignità e coraggio. E' stata un'esperienza che mi ha insegnato tanto, sia dal punto di vista professionale ma soprattutto umano. Ho avuto l'onore di conoscere e stare vicino in quei terribili momenti a un uomo straordinario".
Saba Viscardi
Invia un messaggio alla redazione

Il tuo indirizzo email ed eventuali dati personali non verranno pubblicati.