Dante De Capitani ovvero il leghista pietoso, suo malgrado
Capita a volte che le nostre azioni abbiano conseguenze impreviste e lo stesso può avvenire scrivendo: si vorrebbe dire qualcosa ma si finisce col dire altro. È il caso della lettera al direttore di Merateonline a firma del ruvido sindaco di Pescate Dante De Capitani, intitolata "Come un cane d'estate in autostrada".
De Capitani imbandisce l'ormai consueta reprimenda contro l'immigrazione incontrollata e l'irrazionale e inefficiente sistema di accoglienza messo in campo delle nostre istituzioni. Racconta nel dettaglio un episodio avvenuto nell'amata Pescate, che ha dunque seguito e risolto personalmente, con lo zelo che contraddistingue la sua infaticabile azione di primo cittadino. Un immigrato senza fissa dimora si è infatti palesato nei sacri confini del paese, ma è subito stato individuato dalle solerti sentinelle pescatesi, che hanno immediatamente allertato il sindaco. Fa un certo effetto, per certi aspetti anche comico, immaginare quest'uomo chiuso in una stanza a "visionare in tempo reale" le trentatré telecamere a sua disposizione. Gli occhi arrossati che roteano inesausti dall'una all'altra, e intanto il telefono sottomano, perché i cittadini e le ottantadue persone - fra vigili e sentinelle - che presidiano il territorio potrebbero avere bisogno, e lui c'è sempre, sempre. Inevitabilmente torna alla mente la celebre luce dell'ufficio di Palazzo Venezia, perché anche Lui vegliava insonne e inesauribile affinché in Italia si potesse vivere lasciando le porte di casa aperte. Insomma c'è questo immigrato che vaga per Pescate e il sindaco vorrebbe allontanarlo, morde il freno perché le regole vigenti gli impediscono di dare il benservito all'ospite indesiderato. Non sembra pericoloso, il decreto di espulsione si attiva la settimana seguente, è libero di andare dove vuole... il primo cittadino ha davvero le mani legate, per quanto si arrovelli non può proprio fare nulla. Vorrebbe, altroché se vorrebbe, e vaglia ogni ipotesi possibile, ma il diritto, la legge, si ergono come un argine a difesa dello straniero: profugo, rifugiato o qualunque cosa sia. Il giovane entra in un bar, la proprietaria ne ha paura e chiama subito il sindaco. È giunto il momento di intervenire, Dante De Capitani c'è e si precipita sul posto accompagnato dal primo agente disponibile e da una sentinella pescatese. Ecco che accade l'imponderabile: non appena incontra lo straniero, il piglio militaresco e marziale del sindaco-sceriffo inizia a scricchiolare. Dapprima affronta il ragazzo scortato dal suo manipolo, è incerto sul da farsi ma intende mostrarsi corazzato dell'autorità che rappresenta, per far rispettare l'ordine di cui è garante. Finisce però col sedersi su un muretto accanto all'individuo, che è giovane, giovanissimo, cencioso, sporco, spaurito, smarrito e innocuo: innocente. Ormai è fatta, la pietà s'è insinuata nell'animo del De Capitani come il tradimento in una fortezza; lo straniero s'è fatto prossimo, il prossimo del Vangelo, e il rude e inflessibile borgomastro rimane interdetto e disarmato. Insieme all'immancabile sentinella procura cibo e acqua, e chiama i soccorsi, ma questa volta non la Polizia bensì la Croce Rossa. Quando arriva l'ambulanza, il ragazzo vi sale, "per la prima volta senza irrigidirsi", annota De Capitani. È invece vero il contrario, perché noi abbiamo ormai capito che è proprio quest'ultimo a vacillare, perché si è finalmente aperto all'altro, riconoscendone seppure debolmente l'umanità, suo malgrado. Il viso vuoto, inespressivo, di un ragazzo disperato e indegnamente abbandonato a se stesso dallo Stato italiano è bastato per dissolvere come neve al sole l'armamentario retorico leghista. La tragedia di un essere umano, vista da vicino, si rivela nella sua essenza: non si tratta più della minacciosa maschera senza volto dell'invasore o del delinquente, rappresentata dalla propaganda xenofoba ormai pienamente sdoganata in Italia e in Europa. È soltanto un uomo, come tutti noi, ma più infelice e sventurato di molti di noi, magari anche perché ha dovuto lasciare la sua Pescate, collocata in un altrove imprecisato e a noi del tutto sconosciuto, come per lui le sponde del nostro lago.
De Capitani imbandisce l'ormai consueta reprimenda contro l'immigrazione incontrollata e l'irrazionale e inefficiente sistema di accoglienza messo in campo delle nostre istituzioni. Racconta nel dettaglio un episodio avvenuto nell'amata Pescate, che ha dunque seguito e risolto personalmente, con lo zelo che contraddistingue la sua infaticabile azione di primo cittadino. Un immigrato senza fissa dimora si è infatti palesato nei sacri confini del paese, ma è subito stato individuato dalle solerti sentinelle pescatesi, che hanno immediatamente allertato il sindaco. Fa un certo effetto, per certi aspetti anche comico, immaginare quest'uomo chiuso in una stanza a "visionare in tempo reale" le trentatré telecamere a sua disposizione. Gli occhi arrossati che roteano inesausti dall'una all'altra, e intanto il telefono sottomano, perché i cittadini e le ottantadue persone - fra vigili e sentinelle - che presidiano il territorio potrebbero avere bisogno, e lui c'è sempre, sempre. Inevitabilmente torna alla mente la celebre luce dell'ufficio di Palazzo Venezia, perché anche Lui vegliava insonne e inesauribile affinché in Italia si potesse vivere lasciando le porte di casa aperte. Insomma c'è questo immigrato che vaga per Pescate e il sindaco vorrebbe allontanarlo, morde il freno perché le regole vigenti gli impediscono di dare il benservito all'ospite indesiderato. Non sembra pericoloso, il decreto di espulsione si attiva la settimana seguente, è libero di andare dove vuole... il primo cittadino ha davvero le mani legate, per quanto si arrovelli non può proprio fare nulla. Vorrebbe, altroché se vorrebbe, e vaglia ogni ipotesi possibile, ma il diritto, la legge, si ergono come un argine a difesa dello straniero: profugo, rifugiato o qualunque cosa sia. Il giovane entra in un bar, la proprietaria ne ha paura e chiama subito il sindaco. È giunto il momento di intervenire, Dante De Capitani c'è e si precipita sul posto accompagnato dal primo agente disponibile e da una sentinella pescatese. Ecco che accade l'imponderabile: non appena incontra lo straniero, il piglio militaresco e marziale del sindaco-sceriffo inizia a scricchiolare. Dapprima affronta il ragazzo scortato dal suo manipolo, è incerto sul da farsi ma intende mostrarsi corazzato dell'autorità che rappresenta, per far rispettare l'ordine di cui è garante. Finisce però col sedersi su un muretto accanto all'individuo, che è giovane, giovanissimo, cencioso, sporco, spaurito, smarrito e innocuo: innocente. Ormai è fatta, la pietà s'è insinuata nell'animo del De Capitani come il tradimento in una fortezza; lo straniero s'è fatto prossimo, il prossimo del Vangelo, e il rude e inflessibile borgomastro rimane interdetto e disarmato. Insieme all'immancabile sentinella procura cibo e acqua, e chiama i soccorsi, ma questa volta non la Polizia bensì la Croce Rossa. Quando arriva l'ambulanza, il ragazzo vi sale, "per la prima volta senza irrigidirsi", annota De Capitani. È invece vero il contrario, perché noi abbiamo ormai capito che è proprio quest'ultimo a vacillare, perché si è finalmente aperto all'altro, riconoscendone seppure debolmente l'umanità, suo malgrado. Il viso vuoto, inespressivo, di un ragazzo disperato e indegnamente abbandonato a se stesso dallo Stato italiano è bastato per dissolvere come neve al sole l'armamentario retorico leghista. La tragedia di un essere umano, vista da vicino, si rivela nella sua essenza: non si tratta più della minacciosa maschera senza volto dell'invasore o del delinquente, rappresentata dalla propaganda xenofoba ormai pienamente sdoganata in Italia e in Europa. È soltanto un uomo, come tutti noi, ma più infelice e sventurato di molti di noi, magari anche perché ha dovuto lasciare la sua Pescate, collocata in un altrove imprecisato e a noi del tutto sconosciuto, come per lui le sponde del nostro lago.
Leonardo Giordano