Avv. Cristina Clementi: No, non ha vinto la Giustizia. Le scelte processuali si sono rivelate vincenti ma umanamente il prezzo pagato da me e da tutta la mia famiglia è stato davvero elevato
Da quel lontano lunedì nero di novembre del 2010 sono passati quasi sette anni. Sette anni, sacri nella Bibbia ma che per la famiglia di Cristina Clementi sono stati durissimi; un lungo percorso che ha lasciato pesanti conseguenze nonostante la felice conclusione. Merateonline ha seguito l'intera vicenda processuale dalle sue prime battute sino al 13 settembre, giorno della sentenza. Un giorno senza gioia né dolore, un giorno però, buono per ripartire. L'avvocato Cristina Clementi, dirigente di alto livello dell'ASST di Vimercate e Desio, già designata direttore amministrativo dell'ex Asl di Lecco, carica poi revocata per la vicenda giudiziaria, si è seduta con noi e tra un caffè e un bicchiere d'acqua con lucida determinazione ma anche con momenti di evidente sofferenza ha ripercorso questi sette anni da quel lunedì del 2010.
"Sì, era fine novembre 2010, un lunedì. Quel giorno fu interminabile. Ero già nel nuovo ospedale di Vimercate a verificare che le sale operatorie fossero pronte. Il giorno dopo infatti avremmo iniziato a trasferire i pazienti e tutto doveva essere approntato per ogni tipo di emergenza. Il Direttore mi chiamò al telefono e mi chiese di salire nel suo ufficio.
Quando arrivai trovai alcuni uomini della Digos di Lecco che mi notificarono il decreto di perquisizione e da allora non mi persero di vista neppure un istante. Con gli uffici mettemmo a loro disposizione tutto quello che ci fu richiesto. Acquisirono una serie di fascicoli relativi alle gare pubbliche espletate in questi mesi. Acquisirono tutte le copie dei computer, della mia agenda ed altri documenti. Poi dopo alcune ore ci spostammo a casa ed anche lì cercarono ovunque documenti vari e soprattutto presunte regalie fatte dal sig. Alberto Uva. Mi sequestrarono una crema per il viso, una penna e la ormai nota borsa di Prada. Ancora confezionata nei suoi involucri lasciata sul pavimento della cucina".
Cercavano questi regali, dunque. Perché?
"Secondo gli investigatori quello era il prezzo del favoritismo. Quando fui nella condizione di vedere gli atti delle indagini scoprii che ero stata intercettata telefonicamente per mesi. Avevano ascoltato ogni particolare della mia vita, compreso quando morì mia suocera. Ovviamente solo i particolari di interesse per l'indagine, ma il particolare mi colpì perché dovetti comunicare che non sarei stata in ufficio per alcuni giorni e questo rappresentò uno dei riscontri dei contatti con Uva. Il sig. Uva nelle telefonate aveva parlato di regali per il natale e vennero a cercare proprio quegli oggetti. La penna non mi venne mai regalata ma quel giorno ne sequestrarono una sebbene avesse caratteristiche diverse da quella che si erano immaginati ascoltando le telefonate. Ricordo ancora il volto perplesso del giovane poliziotto della Digos che comunque la inserì tra i beni sequestrati. Un giovane veramente educato che ho rincontrato un paio di anni dopo e che è venuto a salutarmi".
E la famosa Borsa di Prada?
"Quella ha una storia a sé e rappresenta forse uno degli aspetti più amari del processo. Ho spiegato ai Giudici che quando venne portata, nel giugno 2010, riunii il personale del mio ufficio comunicando che avevano regalato una borsa di indubbio valore, ma che non era possibile accettare regali di quel tipo. Disposi che venisse restituita quanto prima. Venne provvisoriamente messa in archivio ma finì nel dimenticatoio e lì rimase fino al novembre 2010 quando facemmo il trasferimento degli uffici amministrativi nel nuovo Ospedale. In quella occasione la mia segreteria mi segnalò che ancora la Borsa non era stata restituita. La recuperai allora per provvedere personalmente. La lasciai in casa, sul pavimento della cucina, nel suo involucro originale e nella sua busta ancora chiusa e lì venne trovata. Tutto questo risulta dai verbali di sequestro. Il pubblico ministero ha definito la mia ricostruzione fantasiosa, ma i testimoni chiamati a processo a mio discarico hanno confermato le mie parole. Ad ogni modo, secondo la ricostruzione degli investigatori, io avrei favorito il tutto per una borsa e per una raccomandazione politica da parte della Lega per una futura carriera".
Ma Lei manteneva questi contatti con il cosiddetto conte Uva?
"Anche su questo avrei da ridire. Tutta la vicenda è iniziata al mio ritorno da una vacanza invernale, quando trovai nella posta elettronica una mail da parte del mio Direttore Amministrativo che mi riferiva di aver incontrato il sig.Uva e di aver visionato il progetto denominato "teleospedale" e di attivarmi per procedere con la gara. Altri dirigenti hanno preso attivamente parte alla vicenda, ma mi sono sempre chiesta perché alla fine siamo stati indagati e processati io ed il mio direttore. Certo è che io ero a capo della struttura del provveditorato che in quell'anno e mezzo ha fatto più di cento gare per allestire un intero ospedale e non potevo non restare coinvolta da una indagine. Però al processo ho spiegato le ragioni di questi contatti. Il progetto sotto il profilo pratico era semplice, realizzare un canale televisivo che comunicasse all'interno degli ospedali informazioni per l'utenza. Pensi ad esempio a cosa si sarebbe potuto fare per le vaccinazioni. Senza creare allarmismi gli utenti avrebbero potuto ricevere informazioni scientifiche o pratiche, solo stazionando in qualche sala di attesa. Sul piano pratico i contenuti del progetto erano tecnologici e in tutta franchezza nessuno dell'Azienda Ospedaliera era nella condizione di poter costruire i contenuti del capitolato. Il progetto era stato già anticipato in una riunione dei direttori generali delle aziende ospedaliere e da quello si doveva partire. Personalmente credevo molto in questo progetto anche se sapevo che avrebbe distolto energie alla mia struttura che in quel periodo stava approntando un nuovo ospedale. Certo era che si sarebbe passati dalla pubblicità tradizionale a quella mediatica e gli ospedali ne avrebbero tratto vantaggio".
Vantaggi di quale natura?
"Avrebbero incassato una parte degli introiti pubblicitari. Quello che non si è mai approfondito durante le indagini era proprio questo particolare. Regione ed aziende ospedaliere non avrebbero sborsato un euro. Semmai lo avrebbero incassato. Ma nell'indagine si è parlato di presunti finanziamenti da parte della Regione a favore di chi si aggiudicava la gara, finanziamenti mai esistiti ma che hanno indirizzato le indagini in termini collusivi. Nella realtà chi si aggiudicava la gara avrebbe dovuto fare fronte all'investimento solo con soldi propri. Ogni azienda poi avrebbe determinato le royalties. Per Vimercate sarebbero state decine di migliaia di euro".
Da quel lunedì è iniziato il calvario giudiziario e personale. Come si vive una vicenda così?
"Dire male è poco. Ti crolla tutto, viene messo tutto in discussione. Non solo la professionalità ma anche la qualità del tuo lavoro. Perdi la serenità in quello che fai e rischi di assumere l'atteggiamento di chi, pur di non correre rischi, non fa più nulla. Ancor più se si considera che è stata messa a setaccio tutta l'attività del mio ufficio di quegli anni e, con questo pregiudizio di malaffare, sono stati gettati dubbi anche su altre gare. Io però sono certa del mio lavoro ed è per questo che ho continuato a lavorare a Vimercate, seppur con un diverso incarico, nonostante mediaticamente fossi già colpevole e nonostante una malattia grave contro cui ho dovuto lottare. Poi ho pagato anche in termini di carriera. Sono stata costretta a rinunciare ad una nomina già fatta come direttore amministrativo della Asl di Lecco e spesso ho dovuto fare passi indietro. Certo è che nel mio nuovo ruolo ho saputo comunque ripartire ed oggi ho un ufficio legale interno che gestisce molte delle cause che coinvolgono l'Ospedale. Questo perché i miei colleghi ed il personale dell'ospedale mi hanno sempre sostenuto e hanno sempre creduto nella qualità del lavoro fatto".
E' quasi banale chiederlo ma se tornasse indietro? Ha qualche rammarico?
"Si. Paradossalmente mi rammarico di aver voluto bandire una gara. Anche se professionalmente lo rifarei. Per il tipo di servizio avrei potuto tranquillamente affidarlo direttamente ad un proponente, ma proprio il fatto che venivano coinvolti altri Ospedali ci ha indotto, con la direzione, a bandire una gara. Una garanzia per tutti che poi mi si è ripercossa contro".
Ci parli del processo
"E' stato lungo e per tanti aspetti uno stillicidio. Tenete conto che dopo ogni udienza c'era la rassegna stampa regionale ed il nome mio e degli altri imputati girava in tutte le direzioni delle aziende ospedaliere, oltre al pensiero comune di chi leggeva magari solo i titoli delle locandine dei quotidiani. Un vero calvario per me e per la mia famiglia. Tecnicamente il Collegio giudicante è sempre stato molto attento. Il pubblico ministero ha fatto al meglio un processo non suo e che sotto alcuni aspetti non era stato adeguatamente istruito. Mancava soprattutto la conoscenza dei meccanismi delle gare pubbliche ed alcune differenze che ho cercato di evidenziare al Collegio con la testimonianza di un docente esperto in appalti pubblici. Quello che gli investigatori hanno definito una "scarpetta di cenerentola" in realtà tale non era per meccanismi amministrativi quali l'avvalimento ed altri che potevano estendere a molti la possibilità di partecipare alla gara".
Quando ha avuto la sensazione che la vicenda processuale poteva concludersi favorevolmente?
"L'esito, come sapete, non è mai scontato; non lo sai mai fino al momento della sentenza. Certamente il tutto ha iniziato a sgonfiarsi quando è apparso a chiaro che la politica non entrava per nulla nella vicenda. Nel filone che mi riguardava si trattava di valutare la correttezza dell'andamento della pubblica amministrazione e questo ha ridimensionato tutto il processo. Non si può però tacere il fatto che Alberto Uva rappresentasse l'area politica della Lega contrapposta a quella del denunciante Stefano Galli e questa battaglia interna oltre ad essere senza esclusione di colpi ha rappresentato il peccato originale dell'indagine. L'ho scoperto dopo. Ma di questo preferirei non parlare. Al momento. Ho comunque compreso le ragioni di tanto accanimento. Inoltre ero data vicino all'area Formigoniana e nel mio piccolo rappresentavo anche io un nemico politico da colpire. Avevo però una certezza. La stessa avvocatura regionale aveva giudicato positivamente il nostro operato. Quando la regione si è costituita nel processo chiedendoci oltre un milione di euro di risarcimento, sono rimasta parecchio sorpresa ed amareggiata".
Chi le è stato vicino in tutti questi anni?
"In momenti come questo sono in molti a fuggire, ma ho avuto anche chi mi è rimasto vicino. Un ruolo fondamentale lo ha avuto la famiglia che mi ha aiutato a superare le difficoltà. Il mio Avvocato, Marcello Perillo, è stato sotto tanti aspetti straordinario sia umanamente che tecnicamente. Durante il processo ha vinto molte battaglie. Ha saputo evidenziare cosa fosse importante e cosa no. Nonostante abbia spesso discusso e litigato con lui, ha mostrato grandi capacità e non ha mai avuto il dubbio sull'esito. Un ruolo fondamentale lo ha avuto mio marito che ha seguito da difensore la prima parte del processo, per poi proseguire supportando Marcello Perillo nell'attività di verifica e riscontro degli atti. Ha pagato forse il prezzo più alto di questa vicenda, da un lato come professionista aveva tutta la consapevolezza e la conoscenza di ogni fase processuale, dall'altro come amministratore comunale ha subito diversi attacchi a causa mia. Qualcuno mi ha anche definito una "sua pecca". Nel frattempo ha dovuto anche sostenere le bambine, con le loro domande ed i loro perché. In ogni udienza è stato sempre al mio fianco, non facendomi mai mancare il suo appoggio. Alla lettura della sentenza porgendomi la sua toga mi ha detto: "Tienila tra le mani. Potranno condannare la persona, ma non la professionista. Non hai nulla da rimproverarti".
Ha vinto la giustizia?
"Direi di no. Una vostra collega mi ha chiesto se dopo la sentenza intendevo festeggiare. Non c'è nulla da festeggiare. Ho trascorso sette anni della mia vita sotto indagine ed in certi momenti arrivi a convincerti che sei colpevole, che hai sbagliato. Troppo il dolore e la fatica tua e di chi ti sta intorno. In qualche maniera devi giustificarla. Io non so se la Legge è uguale per tutti. Non credo. Se così fosse questo processo avrebbe dovuto percorrere anche altre strade. Poi alcuni dei coimputati hanno patteggiato e quindi sono stati sostanzialmente condannati, ma come hanno riferito in udienza, se non avessero preso la decisione di chiudere subito a quest'ora sarebbero stati ancora sotto processo e, da imprenditori, impossibilitati ad andare avanti. Sono scelte. Io ho deciso di difendere la mia famiglia, il mio lavoro, il mio ufficio, consapevole che senza la professionalità di avvocati come Marcello Perillo e Massimiliano Vivenzio, probabilmente avrei ceduto. Alla fine le scelte processuali si sono rivelate vincenti, ma umanamente il prezzo pagato è stato elevatissimo".
"Sì, era fine novembre 2010, un lunedì. Quel giorno fu interminabile. Ero già nel nuovo ospedale di Vimercate a verificare che le sale operatorie fossero pronte. Il giorno dopo infatti avremmo iniziato a trasferire i pazienti e tutto doveva essere approntato per ogni tipo di emergenza. Il Direttore mi chiamò al telefono e mi chiese di salire nel suo ufficio.
Quando arrivai trovai alcuni uomini della Digos di Lecco che mi notificarono il decreto di perquisizione e da allora non mi persero di vista neppure un istante. Con gli uffici mettemmo a loro disposizione tutto quello che ci fu richiesto. Acquisirono una serie di fascicoli relativi alle gare pubbliche espletate in questi mesi. Acquisirono tutte le copie dei computer, della mia agenda ed altri documenti. Poi dopo alcune ore ci spostammo a casa ed anche lì cercarono ovunque documenti vari e soprattutto presunte regalie fatte dal sig. Alberto Uva. Mi sequestrarono una crema per il viso, una penna e la ormai nota borsa di Prada. Ancora confezionata nei suoi involucri lasciata sul pavimento della cucina".
La dottoressa Cristina Clementi
Cercavano questi regali, dunque. Perché?
"Secondo gli investigatori quello era il prezzo del favoritismo. Quando fui nella condizione di vedere gli atti delle indagini scoprii che ero stata intercettata telefonicamente per mesi. Avevano ascoltato ogni particolare della mia vita, compreso quando morì mia suocera. Ovviamente solo i particolari di interesse per l'indagine, ma il particolare mi colpì perché dovetti comunicare che non sarei stata in ufficio per alcuni giorni e questo rappresentò uno dei riscontri dei contatti con Uva. Il sig. Uva nelle telefonate aveva parlato di regali per il natale e vennero a cercare proprio quegli oggetti. La penna non mi venne mai regalata ma quel giorno ne sequestrarono una sebbene avesse caratteristiche diverse da quella che si erano immaginati ascoltando le telefonate. Ricordo ancora il volto perplesso del giovane poliziotto della Digos che comunque la inserì tra i beni sequestrati. Un giovane veramente educato che ho rincontrato un paio di anni dopo e che è venuto a salutarmi".
E la famosa Borsa di Prada?
"Quella ha una storia a sé e rappresenta forse uno degli aspetti più amari del processo. Ho spiegato ai Giudici che quando venne portata, nel giugno 2010, riunii il personale del mio ufficio comunicando che avevano regalato una borsa di indubbio valore, ma che non era possibile accettare regali di quel tipo. Disposi che venisse restituita quanto prima. Venne provvisoriamente messa in archivio ma finì nel dimenticatoio e lì rimase fino al novembre 2010 quando facemmo il trasferimento degli uffici amministrativi nel nuovo Ospedale. In quella occasione la mia segreteria mi segnalò che ancora la Borsa non era stata restituita. La recuperai allora per provvedere personalmente. La lasciai in casa, sul pavimento della cucina, nel suo involucro originale e nella sua busta ancora chiusa e lì venne trovata. Tutto questo risulta dai verbali di sequestro. Il pubblico ministero ha definito la mia ricostruzione fantasiosa, ma i testimoni chiamati a processo a mio discarico hanno confermato le mie parole. Ad ogni modo, secondo la ricostruzione degli investigatori, io avrei favorito il tutto per una borsa e per una raccomandazione politica da parte della Lega per una futura carriera".
Ma Lei manteneva questi contatti con il cosiddetto conte Uva?
"Anche su questo avrei da ridire. Tutta la vicenda è iniziata al mio ritorno da una vacanza invernale, quando trovai nella posta elettronica una mail da parte del mio Direttore Amministrativo che mi riferiva di aver incontrato il sig.Uva e di aver visionato il progetto denominato "teleospedale" e di attivarmi per procedere con la gara. Altri dirigenti hanno preso attivamente parte alla vicenda, ma mi sono sempre chiesta perché alla fine siamo stati indagati e processati io ed il mio direttore. Certo è che io ero a capo della struttura del provveditorato che in quell'anno e mezzo ha fatto più di cento gare per allestire un intero ospedale e non potevo non restare coinvolta da una indagine. Però al processo ho spiegato le ragioni di questi contatti. Il progetto sotto il profilo pratico era semplice, realizzare un canale televisivo che comunicasse all'interno degli ospedali informazioni per l'utenza. Pensi ad esempio a cosa si sarebbe potuto fare per le vaccinazioni. Senza creare allarmismi gli utenti avrebbero potuto ricevere informazioni scientifiche o pratiche, solo stazionando in qualche sala di attesa. Sul piano pratico i contenuti del progetto erano tecnologici e in tutta franchezza nessuno dell'Azienda Ospedaliera era nella condizione di poter costruire i contenuti del capitolato. Il progetto era stato già anticipato in una riunione dei direttori generali delle aziende ospedaliere e da quello si doveva partire. Personalmente credevo molto in questo progetto anche se sapevo che avrebbe distolto energie alla mia struttura che in quel periodo stava approntando un nuovo ospedale. Certo era che si sarebbe passati dalla pubblicità tradizionale a quella mediatica e gli ospedali ne avrebbero tratto vantaggio".
Vantaggi di quale natura?
"Avrebbero incassato una parte degli introiti pubblicitari. Quello che non si è mai approfondito durante le indagini era proprio questo particolare. Regione ed aziende ospedaliere non avrebbero sborsato un euro. Semmai lo avrebbero incassato. Ma nell'indagine si è parlato di presunti finanziamenti da parte della Regione a favore di chi si aggiudicava la gara, finanziamenti mai esistiti ma che hanno indirizzato le indagini in termini collusivi. Nella realtà chi si aggiudicava la gara avrebbe dovuto fare fronte all'investimento solo con soldi propri. Ogni azienda poi avrebbe determinato le royalties. Per Vimercate sarebbero state decine di migliaia di euro".
Da quel lunedì è iniziato il calvario giudiziario e personale. Come si vive una vicenda così?
"Dire male è poco. Ti crolla tutto, viene messo tutto in discussione. Non solo la professionalità ma anche la qualità del tuo lavoro. Perdi la serenità in quello che fai e rischi di assumere l'atteggiamento di chi, pur di non correre rischi, non fa più nulla. Ancor più se si considera che è stata messa a setaccio tutta l'attività del mio ufficio di quegli anni e, con questo pregiudizio di malaffare, sono stati gettati dubbi anche su altre gare. Io però sono certa del mio lavoro ed è per questo che ho continuato a lavorare a Vimercate, seppur con un diverso incarico, nonostante mediaticamente fossi già colpevole e nonostante una malattia grave contro cui ho dovuto lottare. Poi ho pagato anche in termini di carriera. Sono stata costretta a rinunciare ad una nomina già fatta come direttore amministrativo della Asl di Lecco e spesso ho dovuto fare passi indietro. Certo è che nel mio nuovo ruolo ho saputo comunque ripartire ed oggi ho un ufficio legale interno che gestisce molte delle cause che coinvolgono l'Ospedale. Questo perché i miei colleghi ed il personale dell'ospedale mi hanno sempre sostenuto e hanno sempre creduto nella qualità del lavoro fatto".
E' quasi banale chiederlo ma se tornasse indietro? Ha qualche rammarico?
"Si. Paradossalmente mi rammarico di aver voluto bandire una gara. Anche se professionalmente lo rifarei. Per il tipo di servizio avrei potuto tranquillamente affidarlo direttamente ad un proponente, ma proprio il fatto che venivano coinvolti altri Ospedali ci ha indotto, con la direzione, a bandire una gara. Una garanzia per tutti che poi mi si è ripercossa contro".
Ci parli del processo
"E' stato lungo e per tanti aspetti uno stillicidio. Tenete conto che dopo ogni udienza c'era la rassegna stampa regionale ed il nome mio e degli altri imputati girava in tutte le direzioni delle aziende ospedaliere, oltre al pensiero comune di chi leggeva magari solo i titoli delle locandine dei quotidiani. Un vero calvario per me e per la mia famiglia. Tecnicamente il Collegio giudicante è sempre stato molto attento. Il pubblico ministero ha fatto al meglio un processo non suo e che sotto alcuni aspetti non era stato adeguatamente istruito. Mancava soprattutto la conoscenza dei meccanismi delle gare pubbliche ed alcune differenze che ho cercato di evidenziare al Collegio con la testimonianza di un docente esperto in appalti pubblici. Quello che gli investigatori hanno definito una "scarpetta di cenerentola" in realtà tale non era per meccanismi amministrativi quali l'avvalimento ed altri che potevano estendere a molti la possibilità di partecipare alla gara".
Quando ha avuto la sensazione che la vicenda processuale poteva concludersi favorevolmente?
"L'esito, come sapete, non è mai scontato; non lo sai mai fino al momento della sentenza. Certamente il tutto ha iniziato a sgonfiarsi quando è apparso a chiaro che la politica non entrava per nulla nella vicenda. Nel filone che mi riguardava si trattava di valutare la correttezza dell'andamento della pubblica amministrazione e questo ha ridimensionato tutto il processo. Non si può però tacere il fatto che Alberto Uva rappresentasse l'area politica della Lega contrapposta a quella del denunciante Stefano Galli e questa battaglia interna oltre ad essere senza esclusione di colpi ha rappresentato il peccato originale dell'indagine. L'ho scoperto dopo. Ma di questo preferirei non parlare. Al momento. Ho comunque compreso le ragioni di tanto accanimento. Inoltre ero data vicino all'area Formigoniana e nel mio piccolo rappresentavo anche io un nemico politico da colpire. Avevo però una certezza. La stessa avvocatura regionale aveva giudicato positivamente il nostro operato. Quando la regione si è costituita nel processo chiedendoci oltre un milione di euro di risarcimento, sono rimasta parecchio sorpresa ed amareggiata".
Chi le è stato vicino in tutti questi anni?
"In momenti come questo sono in molti a fuggire, ma ho avuto anche chi mi è rimasto vicino. Un ruolo fondamentale lo ha avuto la famiglia che mi ha aiutato a superare le difficoltà. Il mio Avvocato, Marcello Perillo, è stato sotto tanti aspetti straordinario sia umanamente che tecnicamente. Durante il processo ha vinto molte battaglie. Ha saputo evidenziare cosa fosse importante e cosa no. Nonostante abbia spesso discusso e litigato con lui, ha mostrato grandi capacità e non ha mai avuto il dubbio sull'esito. Un ruolo fondamentale lo ha avuto mio marito che ha seguito da difensore la prima parte del processo, per poi proseguire supportando Marcello Perillo nell'attività di verifica e riscontro degli atti. Ha pagato forse il prezzo più alto di questa vicenda, da un lato come professionista aveva tutta la consapevolezza e la conoscenza di ogni fase processuale, dall'altro come amministratore comunale ha subito diversi attacchi a causa mia. Qualcuno mi ha anche definito una "sua pecca". Nel frattempo ha dovuto anche sostenere le bambine, con le loro domande ed i loro perché. In ogni udienza è stato sempre al mio fianco, non facendomi mai mancare il suo appoggio. Alla lettura della sentenza porgendomi la sua toga mi ha detto: "Tienila tra le mani. Potranno condannare la persona, ma non la professionista. Non hai nulla da rimproverarti".
Gli avvocati Marcello Perillo e Massimiliano Vivenzio
Ha vinto la giustizia?
"Direi di no. Una vostra collega mi ha chiesto se dopo la sentenza intendevo festeggiare. Non c'è nulla da festeggiare. Ho trascorso sette anni della mia vita sotto indagine ed in certi momenti arrivi a convincerti che sei colpevole, che hai sbagliato. Troppo il dolore e la fatica tua e di chi ti sta intorno. In qualche maniera devi giustificarla. Io non so se la Legge è uguale per tutti. Non credo. Se così fosse questo processo avrebbe dovuto percorrere anche altre strade. Poi alcuni dei coimputati hanno patteggiato e quindi sono stati sostanzialmente condannati, ma come hanno riferito in udienza, se non avessero preso la decisione di chiudere subito a quest'ora sarebbero stati ancora sotto processo e, da imprenditori, impossibilitati ad andare avanti. Sono scelte. Io ho deciso di difendere la mia famiglia, il mio lavoro, il mio ufficio, consapevole che senza la professionalità di avvocati come Marcello Perillo e Massimiliano Vivenzio, probabilmente avrei ceduto. Alla fine le scelte processuali si sono rivelate vincenti, ma umanamente il prezzo pagato è stato elevatissimo".
Claudio Brambilla