Merate: Brahim Maarad parla del mondo islamico. ''Ricchezza nelle diversità''

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"Credo che si debba parlare di pace in momenti di pace, senza la preoccupazione o il timore che possa succedere qualcosa. Incontriamoci come cittadini e parliamo di Islam con assoluta serenità, scopriremo che nelle diversità c'è ricchezza. È importante imparare a conoscerci e a rispettarci: a rispettare l'altro anche se facciamo fatica a capirlo", è stato questo l'invito di Brahim Maarad al pubblico che l'ha seguito lunedì sera, con grande attenzione e partecipazione, durante l'incontro organizzato dall'associazione La Semina e dal Comune di Osnago che si è tenuto nell'aula magna degli istituti Viganò e Agnesi a Merate.


Ventisei anni, in Italia dal 1999, Brahim è nato in Marocco e dal 2012 è forse il più giovane immigrato ad essere diventato giornalista professionista nel nostro paese. Mussulmano praticante e tra i responsabili della comunità islamica riminese, dove vive, ha seguito per l'Espresso i terribili fatti di Parigi che lo scorso novembre sconvolsero il mondo; cercando di spiegare, attraverso le pagine del giornale, che la sua religione non ammette la violenza ed il terrorismo.

Brahim Maarad con i ragazzi del Viganò e dell'Agnesi. Da sinistra Nada Ladraà, Deborah Magni, Adam Bikti


"Ogni volta che un attacco terroristico viene attribuito alla religione islamica, una religione alla quale appartengo insieme ad 1 miliardo e 600 milioni di persone nel mondo e a 1 milione e 600mila persone in Italia, mi sento tirato in causa e cerco di fare di tutto affinché il mio credo non venga associato ad atti barbarici e criminali", ha detto il giornalista spiegando le ragioni per le quali il titolo scelto per la serata è stato "Potevo essere al Bataclan". "I responsabili degli attacchi che hanno causato più di 90 morti al teatro Bataclan erano ragazzi della mia età, con origini simili alle mie e soprattutto nati e cresciuti in Europa. Avevano la stessa età di coloro che hanno trucidato e che il 13 novembre si trovavano al Bataclan solo per godersi un concerto. Anche io avrei potuto essere là, magari fianco di Valeria Solesin, la ragazza italiana uccisa nell'attentato, per condividere la stessa passione per la musica; ma certamente non con un kalashnikov in mano. Io e gli attentatori possiamo essere apparentemente simili ed avere lo stesso credo, ma a differenza loro io non credo nella violenza, nel terrorismo e nell'ingiustizia. Non stiamo parlando di mussulmani contro occidentali, ma di barbari contro esseri umani che condividono gli stessi valori: la sacralità della vita, della giustizia e del rispetto per il prossimo. Sarei potuto sì essere al Bataclan, ed avrei fatto il possibile per fermare quegli assassini".

Pierangelo Marucco, presidente della Semina


Agli studenti che gli hanno chiesto come superare la paura del diverso e come confrontarsi, da mussulmani, con il pregiudizio che spesso li colpisce, specialmente nelle grandi città, Brahim ha risposto con molta chiarezza: "È normale e umano avere paura dopo atti efferati come quelli di Parigi. I colpevoli hanno colpito con l'intento preciso di seminare il terrore perché non hanno scelto obiettivi tradizionali come gli aeroporti o le ambasciate, ma sono state prese di mira persone che stavano seguendo un concerto o che stavano prendendo un aperitivo al bar. Il problema è che, anche dopo mesi, continuiamo ad agire d'istinto: quando si parla della battaglia contro lo stato islamico non è semplicemente una guerra contro 30mila persone armate ma contro un'ideologia che porta chi ne è affascinato a combattere e uccidere persone che conoscono da una vita. I terroristi sono ragazzi europei cresciuti nella cultura occidentale e che per compiere atti efferati per prima cosa si mimetizzano tra la popolazione. Non ha senso avere paura di un mussulmano vestito in abito tradizionale, così facendo si sommano i pregiudizi quando basterebbe un saluto o un sorriso per demolire il terrore. Dobbiamo comunicare di più ma per comunicare bisogna avere fiducia l'uno dell'altro".

"In questi anni abbiamo subito una campagna d'odio martellante - ha continuato Brahim Maarad - ed il problema principale non sono a mio parere i media ma i social network. Abbiamo vissuto nella convinzione che i giornalisti facessero parte di una casta che parla per interesse o, quando va bene, per vendere il giornale, e per una forma di rifiuto ci siamo affidati alla rete considerandola libera; questo si è rivelato un danno enorme per la comunicazione perché l'idea che ognuno a casa propria possa fare il giornalista è molto pericolosa. Più una notizia è eclatante, più è falsa, più viene condivisa e quando ci arrivano informazioni sbagliate, anche se siamo bravissime persone, ci facciamo opinioni sbagliate e agiamo di conseguenza. Mi rivolgo soprattutto ai giovani invitandoli a prestare attenzione all'informazione clandestina: fare il giornalista non è immediato, la parte più difficile è verificare la fonte di una notizia, e chi scrive da casa propria dietro all'anonimato non si fa certi problemi".


Un tema, quello della comunicazione, che sta parecchio a cuore al giovane italo-marocchino: "Pensate ad Osama Bin Laden che nel 2000 per trasmettere il suo messaggio doveva registrare un video in una videocassetta e mandarla ad Al Jazeera con il rischio che le cose che diceva potessero essere mandate in onda un paio di mesi dopo. Oggi l'Isis investe nella sua campagna mediatica, con Twitter e Youtube, quasi 4 milioni di dollari al mese. Chiunque può venire a conoscenza del suo messaggio senza alcun filtro. Il web ha avvicinato il mondo, togliendo però anche la barriera di protezione tra noi e chi diffonde il terrore".

Al termine della serata un approfondito e interessante dibattito si è aperto tra il relatore e il pubblico. Tante le domande dei presenti e i pareri espressi che hanno permesso al giornalista di ripercorrere con chiarezza non soltanto la storia degli ultimi anni nei paesi arabi, ma anche quella religione islamica.

Non sono mancati anche interventi che hanno evidenziato la differenze tra la libertà della popolazione nel mondo occidentale e in quello islamico.

"Ci sono paesi islamici in cui le minoranze sono tutelate - ha risposto Brahim - in Marocco ad esempio ci sono 30mila ebrei e 30 sinagoghe, i cristiani sono meno ed hanno però un'ottantina di luoghi di culto; con queste proporzioni in Italia dovrebbero esserci circa 1.600 moschee. Non è corretto fare paragoni con lo Stato islamico dove il 90% delle vittime è musulmano o con la Nigeria dove non esiste un livello minimo di civiltà per essere presa in considerazione; alla base di questo ci sono ragioni etniche, storiche, culturali e non religiose".


L'ultimo messaggio del giornalista, prima di salutare, è stato quindi un invito al dialogo"10 anni fa la comunità islamica in Italia era costituita da persone che venivano qui per lavorare, avevano problemi anche solo con la lingua ed evitavano il dialogo, figuriamoci se potevano sostenere discorsi di politica e religione. Oggi le cose sono molto cambiate e con incontri come quello di questa sera facciamo passi in avanti importanti per superare la diffidenza e risolvere i problemi di integrazione".

Matteo Fratangeli

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