1 Aprile. Pasquetta
LUNEDI’ 1 APRILE
MEDITAZIONI DEL LUNEDI’ DELL’ANGELO – PASQUETTA
Auguri a tutti quelli che si chiamano Angelo!
Una giornata che noi giovani degli anni ’70 aspettavamo con impazienza: era il giorno di libertà, quello in cui si organizzavano le gite fuori porta.
Non c’era molto tempo per divertirsi in quegli anni, soprattutto per chi lavorava in proprio, ma i giovani erano sempre più liberi, emancipati e facevano la voce grossa.
I moti del ’68 fanno ormai parte della storia e hanno dato una svolta epocale alla nostra società attuale. Hanno ribaltato credenze, istituzioni e tradizioni.
Non so, ad oggi, quanto abbiano modificato in meglio, ma così fu ed è inutile piangersi addosso. Quello che non accetto è che non si possa cambiare! Non saper cambiare è un po’ come morire.
In quegli anni c’era la voglia di fuga; il giorno di Pasquetta lo “pretendevamo”!
La mia prima pasquetta la trascorsi sui prati di Casella, nell’entroterra di Genova. Con alcune amiche e amici (e i genitori, beninteso!), prendemmo il trenino a scartamento ridotto che dal cuore di Genova porta alla piccola stazione di Casella.
Poi... su per i campi, coi cartoni vuoti, per scivolare sull’erba appena tagliata! Un panino col prosciutto, seduti in cerchio sul prato e poi ritorno a casa.
Avevo 12 anni e il mondo mi stava venendo incontro.
Ricordo tanti altri giorni di Pasquetta, sono tanti ormai! I più belli quelli passati coi figli, brevi gite, l’apertura della casa di montagna, le stanze gelide e il sole, fuori, che cominciava ad asciugare l’umido dell’inverno.
Questi ricordi mi invogliano a proporre un mio racconto di alcuni anni fa. Era il Lunedì dell’Angelo del 1995; i figli erano adolescenti e il viaggio nei ricordi mi faceva pensare ad un colibrì, quell’uccellino molto piccolo, l’unico volatile che sa volare all’indietro. La valle è quella del Trebbia, il lungo e tortuoso fiume che da Piacenza raggiunge le ultime propaggini dell’entroterra genovese. Una valle di circa 160 chilometri e il luogo “magico” del mio racconto si trova pressappoco alla metà del percorso del fiume.
COLIBRI’
Ancora pochi chilometri, poi saremo arrivati.
Sul sedile posteriore i ragazzi si sono addormentati. Non volevano partire; seccati, brontolavano che sarebbe stata una “pasquetta” sprecata.
Nei loro ricordi non ci sono spazi per questi luoghi. Ed eccoci vicini alla meta, mentre attraversiamo la cittadina che precede il paese della mia famiglia.
Imbocchiamo la via che passa nel cuore del suo centro storico e così rivedo le vetrine del negozio di una zia. Mi piaceva giocare coi bottoni e servire le clienti, tra la disperazione della zia e la sopportazione delle sarte che acquistavano spolette e cerniere per finire con urgenza gli abiti commissionati da signore esigenti.
Nella vetrina, completamente rinnovata, non si vedono più manichini e abiti colorati, ma intravedo soltanto televisori e apparecchi digitali.
Usciti dalla cittadina, all’ultima curva, prima di una galleria, campeggia una lapide in pietra che riporta tante fotografie di giovani che da quella rupe erano precipitati nel fiume. Mia mamma mi raccontava spesso la storia di quei ragazzi; erano tornati dalla guerra o dalle risaie, stavano andando a ballare, per divertirsi e dimenticare la vita grama che avevano dovuto subire. E lei ogni volta piangeva e mormorava con un filo di voce: “Poveretti, non se lo meritavano proprio... eravamo tutti amici, tutti della stessa età...”
Poi, più in basso, scorgo il fiume. Non quel fiume della bassa, col letto largo, quasi silenzioso, questo è il fiume che conosco e che amo, che rispecchia il mio animo e la mia essenza più profonda. Cerco con lo sguardo quel groviglio di cascate, di mulinelli, di impetuosità tipico delle valli strette e dei ruscelli di montagna.
Quando, in estate, trascorrevo qualche giorno dalla zia, scendevo al fiume ogni pomeriggio, insieme a mia cugina, più grande di me. La zia ci chiedeva di raccogliere il timo al ritorno, per fare la tisana. E a me piaceva sfiorarlo, quel timo, per farlo arrabbiare e fargli sprigionare il suo intenso profumo. Lo stropicciavo e poi mi annusavo le mani e quell’odore non spariva nemmeno facendo il bagno. Aveva dei piccolissimi fiorellini, difficili da interpretare. Talvolta si trovavano cespugli col fiore rosa e il timo aveva le foglie ancora più piccole. La terra, intorno, era secca dell’arsura estiva e il timo sembrava soffrire la sete, ma non moriva mai e resisteva anche ai rigidi inverni della collina.
Manca un chilometro soltanto e rivedo il “bosco delle fate”, il luogo degli innamorati e degli innamoramenti. Tra la bruma del primo mattino aleggiano illusioni e sogni infranti. Lievissime volute di nebbiolina sembrano intrise di grida e risate; ho la sensazione di scorgere ombre che si rincorrono tra piante e cespugli: sono fantasmi di umido grigiore che si elevano e svaniscono appena entrano in contatto col sole, oppure è il velo di poche lacrime che mi confonde la vista.
Il frastuono del fiume ci assale appena si spegne il motore della macchina.
Qui, nel silenzio assoluto, nell’incanto di una giornata limpida e profumata dei fiori primaverili, qui ritrovo la mia pace e i miei ricordi.
Il fiume mi parla; sento il suo richiamo, quasi un bisogno, ma lo respingo ancora soggiogata dalla paura, da quei racconti sui morti annegati, sui vortici e i mulinelli assassini, da quelle voci tonanti che sentivamo da bambini nelle cucine fumose. I vecchi si riunivano e raccontavano le loro storie, forse le inventavano, ma noi bambini credevamo a tutto e nelle nostre menti si accalcavano racconti di paura difficili da smaltire.
Ma è ancora lì, è sempre lì, paziente, il fiume, mi chiede di tornare e di perdonare.
Apro le finestre e mi muovo in casa come un automa. Sto prendendo tempo per i ricordi, me ne rendo conto. I figli e il marito sono in giardino: la bella giornata li invoglia a stare all’aperto, così ne approfitto e vago per le stanze in cerca di visioni.
Ad ogni passo il viaggio nella memoria prosegue e risveglia ogni ricordo ad ogni porta che apro, mentre mi addentro sempre più nella casa e nel remoto passato.
Sento ancora la voce della mamma: “Attenti a non lasciar sbattere le porte! C’è vento, si rompono i vetri!” e poi, talvolta, un rumore di vetri infranti...
E il letto di piume, soppiantato ora da un moderno letto con i materassi a molle, quell’instabile lettone dove con mio fratello facevamo a gara a chi saltava più in alto.
Erano lunghe tavolate piene di gente, quelle che rivedo nella mente, tutti visi sorridenti e allegri e file di bottiglie vuote sul pavimento; canti, risate, guance e nasi rossi di vino, tutte immagini che ora ritrovo solo socchiudendo gli occhi e aggirandomi nelle stanze silenziose.
Qualcuno ha già provveduto ad accendere la stufa, forse io stessa, inconsciamente, mentre vagavo nei ricordi.
Ascolto il crepitio della legna e ritrovo lo stesso calore di quelle serate d’autunno: viso incandescente e schiena gelata e poi a infilarci nel letto sempre un po’ umidiccio, se non ricordavamo di mettere la boule dell’acqua calda; e le coperte le tiravamo fin sotto il naso, il peso esagerato e si stava immobili per non toccare le parti fredde del letto.
Lascio la casa e mi avvio verso il campo che è rimasto a noi, dopo la frammentazione di quei pochi campi coltivati dai nonni: lo spettacolo è desolante. Un tempo era la vigna di cui andava fiero il nonno, ma non si scorge più nulla del suo orgoglioso passato. Rovi, sterpaglia e piante che richiederebbero una potatura, hanno invaso tutto e non oso neppure addentrarmi per timore di trovare qualche vipera; l’ultima zia, quella che tagliava l’erba per i suo conigli, lasciando qualche spazio per passare, è morta due mesi fa e così l’erba cresce e cresce e non serve a nutrire più nessuno.
Mi sono rassegnata a trascorrere la giornata all’insegna dell’ozio, così ho sistemato il vecchio dondolo sotto le querce e ho continuato il mio viaggio interiore.
Avrei mille incombenze da sbrigare, ma il sole primaverile mi rende pigra e il vuoto che sento intorno a me mi riempie di nostalgia.
Mi manca l’infanzia e mi manca la mia gente.
So di essere il presente e provo ad accettare un altro piccolo futuro.
Tutti mi parlano e mi fanno sentire viva; mi cercano e chiedono aiuto per piccole incombenze che intendono sbrigare.
Mi rendo conto di essere l’ultimo anello di questa catena.
Lentamente arriva la consapevolezza che il passato di questi luoghi e di chi li ha vissuti è ormai solo nella mia memoria.
E’ dolce melanconia, in questi giorni di mezza vita, vissuti intensamente tra emozioni, passioni, amori e incomprensioni, tra gioie e dolori.
Dura corteccia che nasce con noi e che con gli anni ci abbandona, sgretolandosi piano piano a contatto con la vita e lasciandoci completamente vulnerabili verso il suo tramonto.
Il sole sta per raggiungere l’ultima vetta del monte dietro il quale, in questa parte dell’anno, si nasconde, lasciando spazio alle ombre della sera.
Tra poco lasceremo questo ritaglio di mondo e torneremo alla nostra casa di oggi. Dovrò, ancora una volta, chiudere la porta dei ricordi e allontanarmi dall’antica magia di questo spazio incantato, che porterò nel mio cuore sempre, insieme alle voci, alle risate e ai visi sorridenti di tutti i miei cari.
Ma perché si chiama lunedì dell’Angelo?
Festa religiosa
Il Vangelo racconta che Maria di Magdala, Maria madre di Giacomo e Giuseppe, e Salomè andarono al sepolcro munite degli olii aromatici per imbalsamare il corpo di Gesù.
Vi trovarono il grande masso che chiudeva l'accesso alla tomba spostato; le tre donne erano smarrite e preoccupate e cercavano di capire cosa fosse successo, quando apparve loro un angelo che disse: "Non abbiate paura, voi! So che cercate Gesù il crocifisso. Non è qui! È risorto come aveva detto; venite a vedere il luogo dove era deposto" (Mc 16,1-7)).
E aggiunse: "Ora andate ad annunciare questa notizia agli Apostoli", ed esse si precipitarono a raccontare l'accaduto agli altri.
La tradizione ha spostato questi fatti dalla mattina di Pasqua al giorno successivo (lunedì), forse perché i Vangeli indicano "il giorno dopo la Pasqua", anche se evidentemente quella a cui si allude è la Pasqua ebraica, che cadeva di sabato.
Il lunedì dell'Angelo è giorno dell'ottava di Pasqua, ma non è giorno di precetto per i cattolici.
Festa civile
Civilmente il lunedì di Pasqua è un giorno festivo, introdotto dallo Stato italiano nel dopoguerra, e che è stato creato per allungare la festa della Pasqua, così come è avvenuto per il 26 dicembre, giorno che segue il Natale.
Concludiamo questi intensi giorni di meditazioni pasquali anche con delle immagini artistiche che potrebbero essere esse stesse delle meditazioni; osservandole attentamente ci rendono il senso di quello che rappresentano e ci rimandano, ancora, al rito della Pasqua e Resurrezione.
ICONA DEL SEPOLCRO VUOTO
CONSERVATA AL MONASTERO DELLE MONACHE
“SERVE DI S.MARIA” IN ARCO (TN)
Basata su una delle più note icone di Rublev, ritrae la scena evangelica del primo giorno della settimana, quando le donne vennero al sepolcro con profumi per imbalsamare il corpo di Gesù.
Risaltano notevolmente le grandi ali spiegate dell’angelo, che riprendono l’andamento delle montagne appena sagomate sullo sfondo dorato.
Le tre figure femminili, con i loro colori caldi e, strette fra di loro, riunite quasi in una forma unica, sembrano evocare il fuoco nuovo della liturgia nella notte di Pasqua, o la fiamma del cero pasquale il cui punto oscuro corrisponde alla lunga tunica bruna della donna che è al centro.
Le sagome inclinate delle donne e dell’angelo convergono verso la tomba vuota nel cui fondo oscuro risalta il “candido lenzuolo” che aveva avvolto il corpo del Signore. La grotta buia, la forma del sepolcro, il bianco delle bende, riprendono chiaramente il tema del Natale, per indicare la nuova nascita donata da Cristo all’umanità.
L’angelo siede sulla grande pietra del sepolcro, “rotolata via” come un semplice ciottolo levigato nelle mani onnipotenti del Dio della Vita.
Il dipinto sopra riportato è di Trento Longaretti. Mostra le donne che si recano al sepolcro, all’alba del giorno di Pasqua. Sono Maria di Màgdala, Maria di Giacomo e Salome che incontrano un giovane vestito di bianco: l’Angelo.
Il loro era un viaggio “fuori porta”; decidevano anche di fermarsi per pranzo, compiendo l’attuale rituale del pic-nic.
Anche questo viaggio volge al termine, quanti di noi hanno incontrato Gesù sulla strada?
Lascio questa provocatoria domanda nell’etere e ringrazio tutti quelli che hanno avuto la bontà di seguire le mie elucubrazioni e la pazienza di leggermi fino ad oggi.
Ringrazio soprattutto Merateonline e tutta la Redazione per la disponibilità, l’assistenza e la comprensione.
Auguro a tutti un proseguimento di anno sereno, nonostante i tanti attacchi politici...
E auguriamoci che questa Resurrezione sia l’annuncio di una rinascita anche nella nostra tartassata società.
Buon proseguimento!
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I moti del ’68 fanno ormai parte della storia e hanno dato una svolta epocale alla nostra società attuale. Hanno ribaltato credenze, istituzioni e tradizioni.
Non so, ad oggi, quanto abbiano modificato in meglio, ma così fu ed è inutile piangersi addosso. Quello che non accetto è che non si possa cambiare! Non saper cambiare è un po’ come morire.
In quegli anni c’era la voglia di fuga; il giorno di Pasquetta lo “pretendevamo”!
La mia prima pasquetta la trascorsi sui prati di Casella, nell’entroterra di Genova. Con alcune amiche e amici (e i genitori, beninteso!), prendemmo il trenino a scartamento ridotto che dal cuore di Genova porta alla piccola stazione di Casella.
Poi... su per i campi, coi cartoni vuoti, per scivolare sull’erba appena tagliata! Un panino col prosciutto, seduti in cerchio sul prato e poi ritorno a casa.
Avevo 12 anni e il mondo mi stava venendo incontro.
Ricordo tanti altri giorni di Pasquetta, sono tanti ormai! I più belli quelli passati coi figli, brevi gite, l’apertura della casa di montagna, le stanze gelide e il sole, fuori, che cominciava ad asciugare l’umido dell’inverno.
Questi ricordi mi invogliano a proporre un mio racconto di alcuni anni fa. Era il Lunedì dell’Angelo del 1995; i figli erano adolescenti e il viaggio nei ricordi mi faceva pensare ad un colibrì, quell’uccellino molto piccolo, l’unico volatile che sa volare all’indietro. La valle è quella del Trebbia, il lungo e tortuoso fiume che da Piacenza raggiunge le ultime propaggini dell’entroterra genovese. Una valle di circa 160 chilometri e il luogo “magico” del mio racconto si trova pressappoco alla metà del percorso del fiume.
COLIBRI’
Ancora pochi chilometri, poi saremo arrivati.
Sul sedile posteriore i ragazzi si sono addormentati. Non volevano partire; seccati, brontolavano che sarebbe stata una “pasquetta” sprecata.
Nei loro ricordi non ci sono spazi per questi luoghi. Ed eccoci vicini alla meta, mentre attraversiamo la cittadina che precede il paese della mia famiglia.
Imbocchiamo la via che passa nel cuore del suo centro storico e così rivedo le vetrine del negozio di una zia. Mi piaceva giocare coi bottoni e servire le clienti, tra la disperazione della zia e la sopportazione delle sarte che acquistavano spolette e cerniere per finire con urgenza gli abiti commissionati da signore esigenti.
Nella vetrina, completamente rinnovata, non si vedono più manichini e abiti colorati, ma intravedo soltanto televisori e apparecchi digitali.
Usciti dalla cittadina, all’ultima curva, prima di una galleria, campeggia una lapide in pietra che riporta tante fotografie di giovani che da quella rupe erano precipitati nel fiume. Mia mamma mi raccontava spesso la storia di quei ragazzi; erano tornati dalla guerra o dalle risaie, stavano andando a ballare, per divertirsi e dimenticare la vita grama che avevano dovuto subire. E lei ogni volta piangeva e mormorava con un filo di voce: “Poveretti, non se lo meritavano proprio... eravamo tutti amici, tutti della stessa età...”
Poi, più in basso, scorgo il fiume. Non quel fiume della bassa, col letto largo, quasi silenzioso, questo è il fiume che conosco e che amo, che rispecchia il mio animo e la mia essenza più profonda. Cerco con lo sguardo quel groviglio di cascate, di mulinelli, di impetuosità tipico delle valli strette e dei ruscelli di montagna.
Quando, in estate, trascorrevo qualche giorno dalla zia, scendevo al fiume ogni pomeriggio, insieme a mia cugina, più grande di me. La zia ci chiedeva di raccogliere il timo al ritorno, per fare la tisana. E a me piaceva sfiorarlo, quel timo, per farlo arrabbiare e fargli sprigionare il suo intenso profumo. Lo stropicciavo e poi mi annusavo le mani e quell’odore non spariva nemmeno facendo il bagno. Aveva dei piccolissimi fiorellini, difficili da interpretare. Talvolta si trovavano cespugli col fiore rosa e il timo aveva le foglie ancora più piccole. La terra, intorno, era secca dell’arsura estiva e il timo sembrava soffrire la sete, ma non moriva mai e resisteva anche ai rigidi inverni della collina.
Manca un chilometro soltanto e rivedo il “bosco delle fate”, il luogo degli innamorati e degli innamoramenti. Tra la bruma del primo mattino aleggiano illusioni e sogni infranti. Lievissime volute di nebbiolina sembrano intrise di grida e risate; ho la sensazione di scorgere ombre che si rincorrono tra piante e cespugli: sono fantasmi di umido grigiore che si elevano e svaniscono appena entrano in contatto col sole, oppure è il velo di poche lacrime che mi confonde la vista.
Il frastuono del fiume ci assale appena si spegne il motore della macchina.
Qui, nel silenzio assoluto, nell’incanto di una giornata limpida e profumata dei fiori primaverili, qui ritrovo la mia pace e i miei ricordi.
Il fiume mi parla; sento il suo richiamo, quasi un bisogno, ma lo respingo ancora soggiogata dalla paura, da quei racconti sui morti annegati, sui vortici e i mulinelli assassini, da quelle voci tonanti che sentivamo da bambini nelle cucine fumose. I vecchi si riunivano e raccontavano le loro storie, forse le inventavano, ma noi bambini credevamo a tutto e nelle nostre menti si accalcavano racconti di paura difficili da smaltire.
Ma è ancora lì, è sempre lì, paziente, il fiume, mi chiede di tornare e di perdonare.
Apro le finestre e mi muovo in casa come un automa. Sto prendendo tempo per i ricordi, me ne rendo conto. I figli e il marito sono in giardino: la bella giornata li invoglia a stare all’aperto, così ne approfitto e vago per le stanze in cerca di visioni.
Ad ogni passo il viaggio nella memoria prosegue e risveglia ogni ricordo ad ogni porta che apro, mentre mi addentro sempre più nella casa e nel remoto passato.
Sento ancora la voce della mamma: “Attenti a non lasciar sbattere le porte! C’è vento, si rompono i vetri!” e poi, talvolta, un rumore di vetri infranti...
E il letto di piume, soppiantato ora da un moderno letto con i materassi a molle, quell’instabile lettone dove con mio fratello facevamo a gara a chi saltava più in alto.
Erano lunghe tavolate piene di gente, quelle che rivedo nella mente, tutti visi sorridenti e allegri e file di bottiglie vuote sul pavimento; canti, risate, guance e nasi rossi di vino, tutte immagini che ora ritrovo solo socchiudendo gli occhi e aggirandomi nelle stanze silenziose.
Qualcuno ha già provveduto ad accendere la stufa, forse io stessa, inconsciamente, mentre vagavo nei ricordi.
Ascolto il crepitio della legna e ritrovo lo stesso calore di quelle serate d’autunno: viso incandescente e schiena gelata e poi a infilarci nel letto sempre un po’ umidiccio, se non ricordavamo di mettere la boule dell’acqua calda; e le coperte le tiravamo fin sotto il naso, il peso esagerato e si stava immobili per non toccare le parti fredde del letto.
Lascio la casa e mi avvio verso il campo che è rimasto a noi, dopo la frammentazione di quei pochi campi coltivati dai nonni: lo spettacolo è desolante. Un tempo era la vigna di cui andava fiero il nonno, ma non si scorge più nulla del suo orgoglioso passato. Rovi, sterpaglia e piante che richiederebbero una potatura, hanno invaso tutto e non oso neppure addentrarmi per timore di trovare qualche vipera; l’ultima zia, quella che tagliava l’erba per i suo conigli, lasciando qualche spazio per passare, è morta due mesi fa e così l’erba cresce e cresce e non serve a nutrire più nessuno.
Mi sono rassegnata a trascorrere la giornata all’insegna dell’ozio, così ho sistemato il vecchio dondolo sotto le querce e ho continuato il mio viaggio interiore.
Avrei mille incombenze da sbrigare, ma il sole primaverile mi rende pigra e il vuoto che sento intorno a me mi riempie di nostalgia.
Mi manca l’infanzia e mi manca la mia gente.
So di essere il presente e provo ad accettare un altro piccolo futuro.
Tutti mi parlano e mi fanno sentire viva; mi cercano e chiedono aiuto per piccole incombenze che intendono sbrigare.
Mi rendo conto di essere l’ultimo anello di questa catena.
Lentamente arriva la consapevolezza che il passato di questi luoghi e di chi li ha vissuti è ormai solo nella mia memoria.
E’ dolce melanconia, in questi giorni di mezza vita, vissuti intensamente tra emozioni, passioni, amori e incomprensioni, tra gioie e dolori.
Dura corteccia che nasce con noi e che con gli anni ci abbandona, sgretolandosi piano piano a contatto con la vita e lasciandoci completamente vulnerabili verso il suo tramonto.
Il sole sta per raggiungere l’ultima vetta del monte dietro il quale, in questa parte dell’anno, si nasconde, lasciando spazio alle ombre della sera.
Tra poco lasceremo questo ritaglio di mondo e torneremo alla nostra casa di oggi. Dovrò, ancora una volta, chiudere la porta dei ricordi e allontanarmi dall’antica magia di questo spazio incantato, che porterò nel mio cuore sempre, insieme alle voci, alle risate e ai visi sorridenti di tutti i miei cari.
Ma perché si chiama lunedì dell’Angelo?
Festa religiosa
Il Vangelo racconta che Maria di Magdala, Maria madre di Giacomo e Giuseppe, e Salomè andarono al sepolcro munite degli olii aromatici per imbalsamare il corpo di Gesù.
Vi trovarono il grande masso che chiudeva l'accesso alla tomba spostato; le tre donne erano smarrite e preoccupate e cercavano di capire cosa fosse successo, quando apparve loro un angelo che disse: "Non abbiate paura, voi! So che cercate Gesù il crocifisso. Non è qui! È risorto come aveva detto; venite a vedere il luogo dove era deposto" (Mc 16,1-7)).
E aggiunse: "Ora andate ad annunciare questa notizia agli Apostoli", ed esse si precipitarono a raccontare l'accaduto agli altri.
La tradizione ha spostato questi fatti dalla mattina di Pasqua al giorno successivo (lunedì), forse perché i Vangeli indicano "il giorno dopo la Pasqua", anche se evidentemente quella a cui si allude è la Pasqua ebraica, che cadeva di sabato.
Il lunedì dell'Angelo è giorno dell'ottava di Pasqua, ma non è giorno di precetto per i cattolici.
Festa civile
Civilmente il lunedì di Pasqua è un giorno festivo, introdotto dallo Stato italiano nel dopoguerra, e che è stato creato per allungare la festa della Pasqua, così come è avvenuto per il 26 dicembre, giorno che segue il Natale.
Concludiamo questi intensi giorni di meditazioni pasquali anche con delle immagini artistiche che potrebbero essere esse stesse delle meditazioni; osservandole attentamente ci rendono il senso di quello che rappresentano e ci rimandano, ancora, al rito della Pasqua e Resurrezione.
ICONA DEL SEPOLCRO VUOTO
CONSERVATA AL MONASTERO DELLE MONACHE
“SERVE DI S.MARIA” IN ARCO (TN)
Basata su una delle più note icone di Rublev, ritrae la scena evangelica del primo giorno della settimana, quando le donne vennero al sepolcro con profumi per imbalsamare il corpo di Gesù.
Risaltano notevolmente le grandi ali spiegate dell’angelo, che riprendono l’andamento delle montagne appena sagomate sullo sfondo dorato.
Le tre figure femminili, con i loro colori caldi e, strette fra di loro, riunite quasi in una forma unica, sembrano evocare il fuoco nuovo della liturgia nella notte di Pasqua, o la fiamma del cero pasquale il cui punto oscuro corrisponde alla lunga tunica bruna della donna che è al centro.
Le sagome inclinate delle donne e dell’angelo convergono verso la tomba vuota nel cui fondo oscuro risalta il “candido lenzuolo” che aveva avvolto il corpo del Signore. La grotta buia, la forma del sepolcro, il bianco delle bende, riprendono chiaramente il tema del Natale, per indicare la nuova nascita donata da Cristo all’umanità.
L’angelo siede sulla grande pietra del sepolcro, “rotolata via” come un semplice ciottolo levigato nelle mani onnipotenti del Dio della Vita.
Il dipinto sopra riportato è di Trento Longaretti. Mostra le donne che si recano al sepolcro, all’alba del giorno di Pasqua. Sono Maria di Màgdala, Maria di Giacomo e Salome che incontrano un giovane vestito di bianco: l’Angelo.
Il loro era un viaggio “fuori porta”; decidevano anche di fermarsi per pranzo, compiendo l’attuale rituale del pic-nic.
Anche questo viaggio volge al termine, quanti di noi hanno incontrato Gesù sulla strada?
Lascio questa provocatoria domanda nell’etere e ringrazio tutti quelli che hanno avuto la bontà di seguire le mie elucubrazioni e la pazienza di leggermi fino ad oggi.
Ringrazio soprattutto Merateonline e tutta la Redazione per la disponibilità, l’assistenza e la comprensione.
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Buon proseguimento!
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