Molto rumore per nulla
Non me ne voglia la dottoressa Sala se la lettura del suo ultimo intervento su Merateonline (www.merateonline.it/articolo.php?idd=26092) mi ha immediatamente fatto pensare al titolo di una commedia shakespeariana: Much Ado About Nothing ("Tanto trambusto sul nulla", comunemente tradotto da noi, in maniera un po' meno letterale, con "Molto rumore per nulla"). È stata una di quelle automatiche associazioni di idee che potrebbero forse interessare una mia vecchia amica psicanalista, ma che credo comunque in questo caso di essere in grado di spiegare anche da solo. Non mi riferisco tanto al fatto che qui il grande Shakespeare non disdegna di usare per "trambusto" un termine di antica origine dialettale (ado deriverebbe da "at do", forma alternativa di "to do", nel senso di "da fare", diffusa un tempo nelle zone dell'Inghilterra dominate da vichinghi che parlavano il Norreno: si veda per esempio l'edizione del 2010 dell'Etymology Dictionary di Douglas Harper). Meno ancora, naturalmente, può venirmi in mente di suggerire assurde relazioni tra la trama dell'opera teatrale e il contenuto del messaggio della responsabile di Terra Insubre: non vorrei che qualche insegnante di letteratura inglese o qualche appassionato di teatro prendesse i nostri battibecchi per qualcosa di simile alle schermaglie verbali tra Beatrice e Benedick. Molto più banalmente, mi è sembrato che l'espressione shakespeariana possa sintetizzare felicemente anche il contenuto di una polemica che, quando non è dovuta a una lettura un po' frettolosa del mio precedente intervento (www.merateonline.it/articolo.php?idd=25789&origine=1), che evidentemente non mi è riuscito di rendere chiaro come avrei desiderato, mi è parsa interamente centrata su semplici convenzioni terminologiche.
Mi rendo conto a questo punto di dovere qualche spiegazione all'autrice, nonchè a eventuali lettori interessati all'argomento (non, evidentemente, ad Alberico Fumagalli). È chiaro che Maria Vittoria Sala usa il termine dialetto come sinonimo dell'inglese dialect: si tratta di un'accezione del tutto legittima, in base alla quale il Lombardo Occidentale, non costituendo una semplice variante locale dell'Italiano, non può certo essere definito tale. Mi permetto soltanto di osservare che in tale prospettiva anche il Bergamasco, costituendo "un insieme di dialetti (sia diatopici che diafasici) con alta intelligibilità fra di essi", dovrebbe essere considerato una lingua: se la mia interlocutrice non mi crede, provi a confrontare la parlata del Trevigliese (stupendamente immortalata più di trent'anni fa nell'Albero degli zoccoli di Ermanno Olmi) con quella della Val di Scalve. Esiste però un'altra accezione del termine, più diffusa al di fuori del mondo anglosassone, seguendo la quale potremmo anche parlare di una lingua veneta o napoletana, o magari di quella milanese del Maggi, del Balestrieri, del Porta, del Cherubini e del Tessa, ma difficilmente di un Lombardo Occidentale o Insubre-Romanzo che dir si voglia. Basta mettersi d'accordo sul significato dei termini che si usano: quanto a me, non ho prevenzioni. Soltanto, ci terrei a evitare confusioni che rischiano di alimentare mitologie fasulle. Nessuno confonde il Francese col Basso Francone parlato a suo tempo dai Franchi, o il Portoghese con l'antico Lusitano o con il Celtiberico, ma da gente che è stata capace di brevettare un antico simbolo diffuso in tutta l'area circummediterranea (nel 1992 mi capitò di ritrovarlo perfino in Egitto, nell'antico tempio extracomunitario di Osiride ad Abydos, e mi risulta che compaia anche in Turchia, in un mosaico di Efeso risalente al primo secolo avanti Cristo, quando la città era capitale di una delle province più ricche dell'impero di Roma ladrona), ribattezzandolo fantasiosamente "Sole delle Alpi", c'è da aspettarsi di tutto: è solo in questo senso che mi è sembrato opportuno precisare che l'idioma parlato nelle nostre zone viene talvolta abusivamente definito "lingua insubrica". Non negavo poi certamente il fatto che che tale idioma presenti "indubbi residui celtici o liguri", ma mi limitavo a osservare che tali elementi risultano difficili da individuare per un non specialista come me (sono anch'io dottore come la mia interlocutrice, ma in una materia che ha poco a che fare con la linguistica), e non contesto che la dottoressa Sala (anche se ignoro quale sia la sua specializzazione) possa essere più informata di me sull'argomento. È vero inoltre che la scuola e la televisione hanno avuto il merito di rompere i ghetti culturali nei quali da secoli erano relegate le classi subalterne, e anche che tale operazione è stata purtroppo condotta a un livello piuttosto basso e sacrificando gratuitamente le culture popolari locali, ma devo confessare che trovo un po' strano che un'esperta linguista possa sostenere che il Toscano, che si è storicamente affermato a partire dal XIV secolo come linguaggio letterario comune a tutta la nostra penisola, costituisca per noi una lingua "artificiosamente imposta".
Mi scuso infine per il ritardo con il quale rispondo solo ora alle osservazioni della dottoressa Sala: la settimana scorsa mi trovavo in Inghilterra (intento a gustare, assieme a qualche pregevole birra artigianale, talune espressioni celtiche ancora presenti nel dialetto dello Yorkshire) e, come a volte mi capita di fare quando posso permettermelo, avevo deciso di interrompere per qualche giorno i contatti con il nostro amato ed esasperante paese.
Mi rendo conto a questo punto di dovere qualche spiegazione all'autrice, nonchè a eventuali lettori interessati all'argomento (non, evidentemente, ad Alberico Fumagalli). È chiaro che Maria Vittoria Sala usa il termine dialetto come sinonimo dell'inglese dialect: si tratta di un'accezione del tutto legittima, in base alla quale il Lombardo Occidentale, non costituendo una semplice variante locale dell'Italiano, non può certo essere definito tale. Mi permetto soltanto di osservare che in tale prospettiva anche il Bergamasco, costituendo "un insieme di dialetti (sia diatopici che diafasici) con alta intelligibilità fra di essi", dovrebbe essere considerato una lingua: se la mia interlocutrice non mi crede, provi a confrontare la parlata del Trevigliese (stupendamente immortalata più di trent'anni fa nell'Albero degli zoccoli di Ermanno Olmi) con quella della Val di Scalve. Esiste però un'altra accezione del termine, più diffusa al di fuori del mondo anglosassone, seguendo la quale potremmo anche parlare di una lingua veneta o napoletana, o magari di quella milanese del Maggi, del Balestrieri, del Porta, del Cherubini e del Tessa, ma difficilmente di un Lombardo Occidentale o Insubre-Romanzo che dir si voglia. Basta mettersi d'accordo sul significato dei termini che si usano: quanto a me, non ho prevenzioni. Soltanto, ci terrei a evitare confusioni che rischiano di alimentare mitologie fasulle. Nessuno confonde il Francese col Basso Francone parlato a suo tempo dai Franchi, o il Portoghese con l'antico Lusitano o con il Celtiberico, ma da gente che è stata capace di brevettare un antico simbolo diffuso in tutta l'area circummediterranea (nel 1992 mi capitò di ritrovarlo perfino in Egitto, nell'antico tempio extracomunitario di Osiride ad Abydos, e mi risulta che compaia anche in Turchia, in un mosaico di Efeso risalente al primo secolo avanti Cristo, quando la città era capitale di una delle province più ricche dell'impero di Roma ladrona), ribattezzandolo fantasiosamente "Sole delle Alpi", c'è da aspettarsi di tutto: è solo in questo senso che mi è sembrato opportuno precisare che l'idioma parlato nelle nostre zone viene talvolta abusivamente definito "lingua insubrica". Non negavo poi certamente il fatto che che tale idioma presenti "indubbi residui celtici o liguri", ma mi limitavo a osservare che tali elementi risultano difficili da individuare per un non specialista come me (sono anch'io dottore come la mia interlocutrice, ma in una materia che ha poco a che fare con la linguistica), e non contesto che la dottoressa Sala (anche se ignoro quale sia la sua specializzazione) possa essere più informata di me sull'argomento. È vero inoltre che la scuola e la televisione hanno avuto il merito di rompere i ghetti culturali nei quali da secoli erano relegate le classi subalterne, e anche che tale operazione è stata purtroppo condotta a un livello piuttosto basso e sacrificando gratuitamente le culture popolari locali, ma devo confessare che trovo un po' strano che un'esperta linguista possa sostenere che il Toscano, che si è storicamente affermato a partire dal XIV secolo come linguaggio letterario comune a tutta la nostra penisola, costituisca per noi una lingua "artificiosamente imposta".
Mi scuso infine per il ritardo con il quale rispondo solo ora alle osservazioni della dottoressa Sala: la settimana scorsa mi trovavo in Inghilterra (intento a gustare, assieme a qualche pregevole birra artigianale, talune espressioni celtiche ancora presenti nel dialetto dello Yorkshire) e, come a volte mi capita di fare quando posso permettermelo, avevo deciso di interrompere per qualche giorno i contatti con il nostro amato ed esasperante paese.
Michele Bossi























