Ricordi e aneddoti del 25 Aprile '45 raccontati da chi, in prima persona, ha vissuto nel meratese quel giorno divenuto Storia

Conosciamo, perché ci è stata insegnata al tempo della scuola, la storia dell’antico Egitto, sappiamo della cruenta Sparta e dell’intellettuale Atene, ricordiamo, a memoria inglobati in una cantilena, i sette re di Roma. Ma, salvo pochi appassionati (una nicchia davvero ristretta potremmo dire), la stragrande maggioranza di noi ignora completamente fatti storici avvenuti nel proprio paesello. Eppure realtà comunali come Merate così come Brivio, Casatenovo o Osnago non sono certo “nate ieri”.
Alla vigilia del 25 Aprile, 67esimo anniversario della Liberazione dello Stivale dall’occupazione nazi-fascista, abbiamo voluto dare voce a chi ha vissuto qui, tra meratese e casatese, quei giorni concitati fatti di speranza ma anche di angoscia, giorni che profumano di libertà ma impregnati anche del sangue di chi, partigiano, repubblichino, tedesco o semplicemente vittima degli eventi, ha dato la propria vita, magari per difendere un proprio ideale.
Sono testimonianze, quelle racchiuse nelle righe che seguono, di persone dai capelli brizzolati, i giovani di quel periodo, coloro i quali oggi resistono al passare del tempo che, scorrendo inesorabile, ha fagocitato i genitori, gli amici o i vicini di casa con i quali, i nostri protagonisti, hanno vissuto in presa diretta la realtà della guerra prima e delle rinascita poi.  E quando il tempo farà il suo corso, strappandoci anche questi ultimi testimoni, toccherà noi perpetuare i ricordi di quegli anni “perché la Resistenza deve continuare a esistere, tutti i giorni” (Enzo Biagi). Ma ora, godiamoci le loro parole, aneddoti ed episodi che ancora oggi li emozionano ed emozionano chi, come noi, ha avuto la fortuna di farseli raccontare… Buon 25 Aprile.

ROVAGNATE – “UGO, UGO…”
Ha chiesto di non pubblicare il suo nome, il nostro primo “testimone” ma, a 67 anni di distanza, gli occhi gli si riempiono ancora di lacrime ricordando quella madre di Cremella arrivata a Rovagnate per riprendersi il cadavere del figlio partigiano brutalmente assassinato insieme a un nuvolo di altri compagni nella notte del 26 Aprile ‘45. Era poco più che un bambino, il nostro narratore, ma ha ancora nella mente quel nome, Ugo, urlato da quella mamma straziata dal dolore. “E’ stata la tragedia più forte, vedere quei genitori arrivare a ritirare i cadaveri dei loro ragazzi” ricorda lui che quei cadaveri era andato a recuperarli, giù sulla statale, insieme al parroco, a suo padre e a un gruppo di volontari che poi si sono fatti carico anche di ripulirli.
Partigiani a Rovagnate
“Abbiamo trascorso tutta la notte a luci spente. Eravamo sul solaio, quello che oggi si chiama mansarda ma che per noi era solo il solaio. Io vivevo vicino alla chiesa, accanto alla casa del parroco. Mio padre era sacrestano e io facevo il chierichetto aiutando don Gaspare. Quella notte, verso le due o le tre, abbiamo sentito bussare alla nostra porta. Mio papà aveva paura, non voleva aprire. A bussare era un cappellano. Aveva con sè un partigiano ferito e uno morto. Li abbiamo fatti entrare ma, in quel momento, non avevamo ancora capito cosa stava succedendo. All’alba siamo scesi: giù, lungo quella che allora era la provinciale, c’erano le trincee dentro le quali ci si nascondeva durante i bombardamenti. Erano piene di morti!”.
I cadaveri erano quelli di un gruppo di partigiani, sorpresi e trucidati. “Erano tutti sporchi, di fango e di sangue. Pioveva… Abbiamo caricato tutti quei ragazzi un carretto senza sponde. Li abbiamo caricati come si carica il fieno. Un’impressione vedere quelle braccia e quelle gambe che pendevano fuori dall’asse del carro. Li abbiamo portati all’oratorio di Santa Caterina. I volontari e le donne li hanno lavati, puliti e messi tutti sulle panche. Nella cappella del cimitero invece avevano portato un soldato russo a cui era stata spaccata la testa con il calcio di un fucile ad Alduno e un altro partigiano di Monte ucciso dove adesso c’è il Barbasport. Per il soldato russo è venuto un prete ortodosso che non so come era stato contattato. E’ venuto per il riconoscimento, per vedere se aveva la piastrina ma non si è saputo chi fosse e così è stato seppellito col Belotti in cimitero. Gli altri invece sono venuti i genitori a prenderli. Ancora sento una madre che urlava “Ugo, Ugo…””. Si emoziona il nostro narratore. La rabbia e lo sdegno salgono anche ricordando alcuni dettagli: “a tutti era stato sparato il colpo di grazia alla testa. Solo vedendo i loro cadaveri abbiamo capito cosa stava succedendo la notte precedente quando, dal solaio, guardando giù verso la provinciale vedevamo una lucina, probabilmente una pila muoversi nel buio e poi sentivamo quei tam, tam, tam…”.
“Anche il parroco quel giorno ha un po’ perso le staffe davanti a quella tragedia” confessa poi ricordando con affetto don Gaspare Catteneo, sacerdote disposto a nascondere le armi per i combattenti nella propria casa, al fianco quindi di quei partigiani ai quali, assistito dal nostro testimone, ha impartito la benedizione prima di affidarli alle loro famiglie per darne degna sepoltura. “Quella mattina, diversi fascisti e repubblichini vennero portati a Villa Sacro Cuore prima di essere trasferiti a Como. Don Gaspare era talmente scosso che avrebbe voluto vendicare quei ragazzi brutalmente assassinati”. E invece, chiese di pregare anche per loro così, come in tempo di guerra, aveva fatto per quei ragazzi della sua parrocchia, chiamati al fronte: “Aveva un elenco di tutti i combattenti. Una copia l’aveva fatta mettere in un cuore depositato in chiesa. Il giorno della prima comunione e della cresima, aveva dato ai bambini un bigliettino con i nomi di quei soldati chiedendo di pregare per loro. Solo 6 dei “suoi” ragazzi sono rimasti via”.

BRIVIO - I CAMION DEI TEDESCHI E LE CARAMELLE DEGLI AMERICANI
E’ legato alla strada statale il ricordo della Liberazione della “nonna” briviese, allora ragazzina, che ha accettato di condividere con noi e con i nostri lettori un frammento del suo vissuto. “Non ricordo se era il 24 o il 25: in paese si sussurrava che una colonna di tedeschi fosse a Cisano e che li si stesse combattendo. Non volevano però passare il ponte perché gli era stato detto che era stato minato così hanno chiesto l’intervento del podestà e del prevosto. Alle 5.00 del pomeriggio, io, i miei vicini di casa e la nonna eravamo nascosti sul solaio. Sono passati con i primi camion. Sparavamo in aria perché non volevano che ci affacciassimo a vedere. Da quello che sono riuscita a vedere ho avuto come l’impressione che sui lati dei motocarri fossero seduti i soldati e in mezzo avessero come nascosto i loro compagni morti. E effettivamente, a Brivio, dopo aver passato il ponte, hanno abbandonato un po’ dei loro camion e addirittura una berlina, non gli servivano più. Due ore dopo il loro passaggio, è iniziata a circolare la voce che gli americani erano a Bergamo e verso le 8.00 infatti sono arrivati anche loro. Noi li aspettavamo seduti sul muro di casa che dava sulla statale. La mia mamma, per paura, ci voleva però mandare a dormire dagli zii che abitavano più all’interno della via, non sulla strada. Ricordo le scatolette di latta con dentro le caramelle che lanciavano gli americani e la coperta che volevano lasciare al mio papà che però non l’ha voluta”. Erano giorni di grande paura ma anche di orgoglio…

NOVATE - I PARTIGIANI AL MANDIC ALLA RICERCA DI UN'AMICA DI PAVOLINI, GERARCA FASCISTA
Ad annunciare la Liberazione erano state le campane. Arroccati sulla collinetta di Santo Stefano i bronzi della chiesa di Novate avevano iniziato a suonare a festa come se si trattasse di una funzione solenne. E la gente era scesa in strada quasi arrivasse un alto prelato in visita pastorale. Quel giorno l’oppressore era stato messo in fuga: ordigni esplosivi e spari che gli italiani erano abituati a vedere e sentire nei bagliori rossastri che si stagliavano nel cielo al cadere di una granata e nel boato che seguiva il fischio della bomba che tagliava l’aria, forse potevano dirsi alle spalle.
Ma tutto allora era ancora confuso, in un rincorrersi convulso di persone, rumori, macchine, minuti che svanivano e si accavallavano più veloci della loro natura.
Teresa aveva vent’anni. Con la famiglia abitava nel cuore di Novate, nella cascina dove termina la salita che conduce alla canonica. Dall’alto di una finestrella posizionata sulla parete sud, si era abituata in quegli anni a vedere i lampi che salivano da Milano e Vimercate al cadere di una bomba tra i campi di gelsi dove le costruzioni erano rade e da dove nelle belle giornate si riusciva anche a scorgere la Madonnina del Duomo. “Un fuoco. Sembra ci fosse un incendio. Prima si sentiva il fischio: fiiiiiiiii. Poi giù la bomba e si vedeva questa nuvola rossa, di un colore acceso, che si alzava arrabbiata verso il cielo. Che paura” racconta stringendosi nel suo golf porpora, sbarrando gli occhi quasi volesse plastificare ancor oggi la paura e gesticolando a indicare i luoghi di quegli spari. “Quando sentivamo la sirena il papà ci chiamava e ci radunava portandoci nell’altra casa che si trovava poco distante (Strada per Barbiano, ndr). Lì c’era una collinetta di terra. Allora noi ci accucciavamo, appoggiandoci alla parete di terra e stavamo lì fermi, immobili  ad aspettare che tutto finisse. Sopra si sentivano e si vedevano gli aerei volare, pronti a sganciare le bombe. Che paura”.
Teresa Ripamonti allora vent'enne
Quel 25 aprile di 67 anni fa era una bella giornata di sole. Teresa era a casa e dalla sua finestra aveva sentito le campane suonare con vigore a festa. Ma era un suono diverso, prolungato: non era un matrimonio, né un’ora del Salterio, né un Angelus. Nulla di tutto ciò. Nell’aria c’era qualcosa di anomalo, soprattutto non c’erano i boati degli ordigni esplosivi e già questo era qualcosa. Inforcata la sua bicicletta Teresa si era diretta verso Merate, con una prima tappa in Via Cerri nei pressi dell’ospedale dove nell’attuale sede dell’Ecosystem c’era un maglificio. “Ho visto una colonna di partigiani entrare in ospedale” ha  proseguito nel racconto “e uscirvi poco dopo per recarsi verso Merate. Ho subito capito chi cercavano”. Stando infatti a quanto raccontano sia Teresa che altre donne della frazione al Mandic era stata ricoverata da un paio di giorni una donna, molto cara ad Alessandro Pavolini, gerarca fascista vicino al Duce, figura chiave nei giorni a ridosso della fuga e segretario del partito fascista repubblicano, che era stata ferita da una scheggia di granata alla testa. Il colpo le aveva lesionato anche il nervo ottico tanto che la donna, figlia di marchesi della Milano bene, era stata privata della vista. Per assisterla diverse “signorine” di Novate e una religiosa (scomparsa di recente, ndr) erano state chiamate a prestare servizio e a darsi il cambio nei turni così da non lasciare mai sola la donna. “Anche io ero andata qualche giorno prima su in ospedale e mi avevano fatto vedere questa signora. Una donna bellissima. Aveva la pelle vellutata, come quella di un bambino ma per la ferita alla testa non vedeva e gli occhi erano come ribaltati indietro. Mi ricordo che quando sono entrata in camera quel giorno, lei aveva sentito dei passi e si era tirata su nel letto, allungando le mani per vedere chi c’era. Le donne che erano con lei in quel momento l’avevano tranquillizzata mentre io mi ero spaventata moltissimo ed ero scappata via dalla camera in fretta. Quel 25 aprile i partigiani erano entrati in ospedale probabilmente perché pensavano che trovando lei avrebbero trovato anche Pavolini o qualche suo uomo di fiducia al servizio del Duce. Invece la donna era stata portata via nella notte, forse dai suoi parenti che avevano mandato della servitù a prenderla. Ero poi risalita in bicicletta dirigendomi verso Merate. Arrivata in Via Sant’Ambrogio, vicino alla chiesa avevo sentito nuovamente degli spari: c’erano i partigiani che avevano trovato dei tedeschi in fuga. Ed era iniziata la caccia. I tedeschi fuggivano verso Via Garibaldi dove avevano requisito diverse ville e nei momenti buoni avevano trovato lì alloggio. Ora tentavano di unirsi alle carovane dirette verso la Valtellina o la Svizzera”. In una di queste carovane i partigiani intercettarono Roberto Farinacci (segretario del partito nazionale fascista) che fu così catturato e successivamente portato a Vimercate dove subì un processo e la morte per fucilazione. “Sentivo ancora degli spari e così, spaventata, con la mia bicicletta ero corsa di nuovo a Novate. In strada c’era molta gente. Le donne del paese mi avevano incrociato e mi avevano detto: “te ghet un bel co a sta in gir con i partigiani. Va’ a ca”. Dopo qualche  giro ero tornata a casa. Da quel momento era iniziata l’attesa per il ritorno dei parenti in guerra. Pasquale (che divenne poi suo marito, ndr) fu l’ultimo di Novate a tornare a casa. Era il mese di ottobre”.

ALTRI RICORDI DAL TERRITORIO:

SUELLO - ARIA DI FESTA… LUNGO LE ROTAIE
A raccontarci del 25 aprile e della Liberazione è stato anche Giulio Castelnuovo di Suello, classe 1926 e ultimo internato militare in vita del paese.
Giulio Castelnuovo
Dopo aver passato anni difficili nel campo di lavoro di Marienburg prima e sulle rive del Reno poi, come internato civile, Castelnuovo ci ha fornito uno spaccato dei momenti della Liberazione, sia pur con le limitazioni dovute alla distanza temporale e all'avanzato stadio di debilitazione fisica dovuto alle immani fatiche sopportate in Germania.
"E' passato molto tempo ma ricordo ancora il viaggio di ritorno in treno, verso il Brennero, quando ci diedero la notizia che la guerra era finita e che potevamo fare ritorno a casa. Dal Brennero viaggiai a bordo di un camion fino a Milano, dove presi il primo treno diretto a Como e quindi a Erba. Da li presi il tram diretto a Lecco, che all'epoca fermava proprio a Suello. C'era aria di festa lungo le rotaie, dove ad attendermi c'era mia sorella. Fui condotto a casa, dove dopo anni di assenza riuscii finalmente a riabbracciare la mia famiglia".
Frammenti di ricordi, immagini offuscate dagli stenti e dalle privazioni della prigionia, ancora oggi chiaramente visibili negli occhi del signor Castelnuovo durante il racconto.
Toccante anche il racconto di una concittadina di Castelnuovo, Gesuina Stefanoni: "eravamo tutti allegri il 25 aprile, c'era una gran festa. Hanno suonato le campane per annunciare che la guerra era finita, c'era talmente tanta euforia che mio fratello, che si trovava a letto con la febbre alta per il tifo (contratto in Germania dove gli facevano sotterrare i morti) si è svegliato per poi riaddormentarsi. Erano tutti felici ma in cuor mio soffrivo per la mancanza di mio marito".
Un racconto rotto dalla commozione della donna, che ancora oggi riesce a rivivere distintamente gli orrori legati a quel periodo, le privazioni, i lutti occorsi ai famigliari.

CASATENOVO – UN RICORDO ANCHE DA ROVIGO
Sono ormai passati 67 anni dalla storica giornata del 25 aprile 1945, ma i ricordi di quei movimentati eventi sono rimasti scolpiti nella memoria di Bonaventura Bonfatti, ferrarese di nascita ma lombardo di “adozione” e residente da oltre 40 anni alle porte di Casatenovo.
Alla vigilia dell’anniversario della Liberazione il signor Bonaventura, classe 1935, ci ha fornito un vivido resoconto di quella giornata vissuta in prima persona in un fosso della “Bassa”, il tratto di pianura che dall’Emilia al Veneto viene attraversato dalle acque del fiume Po.
Un racconto ambientato nel paesino di Ficarolo, in provincia di Rovigo, dove Bonaventura visse i difficili anni della guerra.
Bonaventura Bonfatti
“I giorni immediatamente precedenti al 25 aprile furono molto travagliati. Il 23 mattina, sapendo dell’arrivo delle truppe tedesche in ritirata dal fronte emiliano, fummo costretti ad abbandonare la nostra casa per fuggire nei campi, riparandoci all’interno di un fosso lontano dall’abitato.
Ci fermammo nei pressi di un casale dove i contadini avevano rovesciato sul fosso un grande carro, di quelli utilizzati per trasportare il fieno, creando un riparo. Per rendere più “confortevole” la nostra permanenza avevano ricoperto il fondo con della paglia ma mancavano cibo e acqua. Non sapendo per quanto tempo saremmo rimasti fermi in quel punto mio nonno decise di ritornare in casa per raccogliere provviste. Mentre era intento a caricare una carriola con le cibarie sono sopraggiunti 12 soldati tedeschi che lo hanno fermato e costretto a preparargli una pastasciutta. Avendolo sorpreso nel tentativo di caricare di viveri una carriola devono aver pensato che potesse essere un partigiano, o comunque un contadino in stretti rapporti con la Resistenza. In breve decisero di fucilarlo ma non prima di aver dato fondo alla dispensa di casa, un particolare che si rivelò essere la salvezza del nonno. Satolli e un po’brilli i soldati non lo videro scappare proprio mentre un comandante dell’esercito tedesco arrivava con l’ordine di ritirata.
Rimanemmo nel fosso per tutto il giorno seguente. Alla sera non si poteva mettere la testa fuori dal carro, le pallottole fischiavano in ogni direzione: da un lato del fiume, quello a sud, gli americani incalzavano i tedeschi, in ritirata attraverso il Po e lungo la sponda veneta verso le Alpi. Un lato sparava all’altro, era una guerra vera e propria e noi eravamo nel bel mezzo.
Verso mezzanotte è tornato il silenzio e per qualche ora siamo riusciti a dormire.
Soltanto all’alba del 25 aprile, dopo due giorni dentro quel fosso, abbiamo potuto finalmente uscire dal nostro rifugio. Me lo ricordo come se fosse oggi: una giornata splendida, con un sole raggiante e un cielo azzurro. Nessuno sparava, nessuno correva e sulla cima del campanile sventolava una grande bandiera bianca. Capimmo che la guerra era finita”.

Ricordi che il signor Bonfatti ha serbato per una vita intera, incisi in maniera indelebile nella memoria di quel bambino rifugiato insieme alla famiglia in un campo del Polesine, sotto i colpi delle mitragliatrici.
“Il 26 arrivarono gli americani e fu una gran festa: con i loro anfibi attraversarono il grande fiume e sfilarono per le vie del paese, lanciando dalle torrette cioccolato, pacchetti di sigarette, scatolame. Fu una gioia incontenibile dopo anni di paura e terrore, durante i quali io e la mia famiglia fummo costretti a fuggire sulle montagne della Toscana per scappare dalle truppe del Reich e nascondere mio padre, deportato nei campi di lavoro di Amburgo e fuggito a piedi sino a ritornare in paese. Altri eventi tristi sarebbero occorsi pochi anni dopo, con la tragica alluvione del Polesine del 1951, ma quel giorno tutti noi festeggiavamo la fine della guerra e delle privazioni vissute durante il conflitto, salutando sotto un sole splendente l’arrivo della libertà”.

NIBIONNO - L'ARRIVO DEGLI AMERICANI E LE ''CICCHE''
Pierino Beccalli
Nel 1945 Pierino aveva 14 anni e collaborava presso il comune di Nibionno. Il suo compito era quello di aiutare a fare le tessere necessarie per l'acquisto di pane, vino e olio. Le porzioni per tutti erano contate: 5 kg di riso al mese, un pacchetto di sigarette alla settimana. E' ancora vivo nella sua mente il ricordo dei giorni precedenti alla Liberazione: "La sera del 22 aprile i partigiani hanno fermato alcuni dei repubblichini che erano in comune sulla strada che porta a Tabiago e li hanno disarmati. La sera successiva nei pressi del Maurizi i partigiani hanno bloccato una camionetta di tedeschi, e li hanno messi in fuga anche se uno di loro è stato ucciso. La sera del 24 un camion di partigiani fuggiti dal fronte sono arrivati a Nibionno e si sono diretti a Merate. Sulla strada del ritorno però sono stati fermati a Rovagnate e 9 di loro sono stati uccisi. Ricordo che i corpi sono stati poi portati nella vecchia chiesetta di San Gervaso. Pochi giorni dopo il 25 aprile, in piena notte, siamo stati svegliati da una colonna di alleati. Siamo tutti scesi in strada per vedere e li abbiamo accolti battendo le mani . Ricordo che gli inglesi ci hanno lanciato delle cicche, e noi non sapevamo nemmeno cos'erano" racconta.
Significativo il gesto della famiglia del nibionnese, che alla vigilia della Liberazione ha ospitato in casa propria tre inglesi in fuga verso la Svizzera. "Ricordo che don Paolo Riva, un prete originario di Nibionno, aveva bussato alla nostra porta e aveva chiesto a mia mamma di ospitare tre inglesi. Lei accettò, e questi rimaserò da noi dalle cinque del pomeriggio fino a tarda notte. Poi un signore è venuto a prenderli. Alla fine della guerra ricordo anche che a mia mamma hanno consegnato una medaglia di bronzo per aver aiutato a nascondere gli alleati".

VIGANO'- I RICORDI DEGLI ANZIANI IN CASA DI RIPOSO

Gli anziani della casa di riposo ricordano i giorni della Liberazione come un momento di grande felicità perchè i nazifascisti erano stati finalmente allontanati dal nostro territorio e dall'Italia intera.
Erminio Riva classe 1936 di Viganò ricorda i partigiani che nei giorni precedenti il 25 aprile si nascondevano ma che, con l'arrivo degli alleati, giravano per le strade per trovare i fascisti.
''Nel mio paese ce n'erano tre di partigiani, tutti li conoscevamo per nome'' racconta ''Mentre ricordo di aver visto gli americani a Barzanò, nei pressi della vecchia scuola elementare. Noi che eravamo bambini, li guardavamo con curiosità. Erano gentili, ci offrivamo la cioccolata''.
Erminio Riva trascorse alcuni anni della sua vita a Milano, dal 1939 al 1942, per poi fare ritorno a Viganò. Ricorda quando il duce Mussolini venne appeso in Piazzale Loreto perchè molti suoi familiari assistettero a quella scena.
La missagliese Carla Magni classe 1930 ricorda i partigiani che si nascondevano nei boschi, vicino a casa sua in località Rengione. E poi gli alleati che con i loro potenti mezzi transitavano per il centro di Missaglia.
Eleonora Panzeri viveva in Valle Santa Croce a Missaglia. Una zona un pò defilata dal centro, ''non vedevamo tutto quello che accadeva''.


Tuttavia i suoi ricordi si concentrano nel periodo fascista, quando lei, classe 1927, era una bambina e frequentava la scuola. ''Ci costringevano a passare ore e ore a sentire i fascisti in comizio, ma noi eravamo piccoli e non ci importava'' ci ha raccontato ''Una sera ci hanno tenuti per diverse ore in piedi davanti al comune. Eravamo stanchi, affamati, ma a loro non importava perchè ci dovevano dire le loro cose. Ricordo che i nostri familiari, arrabbiati, vennero a prenderci''.
E infine un frammento rimasto impresso nella memoria di tutti: quelle campane che da Missaglia a Viganò (comuni d'origine degli ospiti ndr) quel 25 aprile suonarono a festa in segno di libertà.
Maria Lanzi, anche lei missagliese, era molto piccola quando il 25 aprile 1945 l'Italia venne liberata, ma ricorda l'atmosfera di quel periodo di dominazione fascista. ''Sono stati tempi duri, per questo la lotta partigiana e l'arrivo degli alleati era stato accolto da tutti con felicità. La ripresa però non è stata facile, per molto tempo c'è stata miseria e poco da mangiare''.
Eleonora Panzeri viveva in Valle Santa Croce a Missaglia. Una zona un pò defilata dal centro, ''non vedevamo tutto quello che accadeva''. Tuttavia i suoi ricordi si concentrano nel periodo fascista, quando lei, classe 1927, era una bambina e frequentava la scuola. ''Ci costringevano a passare ore e ore a sentire i fascisti in comizio, ma noi eravamo piccoli e non ci importava'' ci ha raccontato ''Una sera ci hanno tenuti per diverse ore in piedi davanti al comune. Eravamo stanchi, affamati, ma a loro non importava perchè ci dovevano dire le loro cose. Ricordo che i nostri familiari, arrabbiati, vennero a prenderci''.
E infine un frammento rimasto impresso nella memoria di tutti: quelle campane che da Missaglia a Viganò (comuni d'origine degli ospiti ndr) quel 25 aprile suonarono a festa in segno di libertà.
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