Church Pocket/93. Il Signore è vicino. Ma dove lo cerchi?

La kenosi come chiave per comprendere Dio e noi stessi.
C’è un dettaglio del Primo Libro dei Re che mi torna spesso alla mente. Elia sale sull’Oreb per incontrare Dio, e si prepara al fuoco, al terremoto, al vento impetuoso:
«Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento ci fu un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto ci fu un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco ci fu il mormorio di un vento leggero.»

È una scena che conosciamo, ma che forse non ascoltiamo davvero: Dio non si manifesta dove l’uomo si aspetta la potenza, ma dove c’è quasi niente. Nel fragile, nel minimo, nel discreto. C’è un tratto della fede cristiana che continuiamo a fraintendere. Tendiamo a immaginare Dio come una forza che interviene dall’alto, come una sicurezza che scende su di noi quando la nostra non basta più. Invece il cristianesimo, fin dall’inizio, rovescia questa logica. Dio non salva evitando la fragilità, ma attraversandola. Non si presenta come l’Altissimo che risolve: si presenta come Colui che si abbassa. In questi mesi, forse anche per vicende personali, mi sono accorto di quanto sia diffusa un’immagine distorta della fede: l’idea che “credere” significhi essere forti, avere risposte, non traballare. Quando si entra con onestà in questa logica, ci si accorge che la fragilità non è un incidente che Dio sopporta, ma la via attraverso cui sceglie di farsi conoscere. Più invecchio, più mi accorgo che le stagioni in cui “stavo bene” non mi hanno avvicinato a Dio quanto quelle in cui non avevo più appigli. È quando ti manca la voce che cominci a capire cosa vuol dire ascoltare. La fragilità, alla fine, non la scegli: ti sceglie. E Dio la usa.
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Anche oggi, però, continuiamo a immaginare Dio come una presenza che interviene dall’alto, che colma le nostre mancanze, che ci rende più stabili di quanto siamo. È un’immagine rassicurante, forse inevitabile quando la vita si fa incerta. Ma non è l’immagine che il cristianesimo propone. La fede cristiana non nasce dalla ricerca di un Dio invulnerabile: nasce dalla rivelazione di un Dio che decide di non esserlo.
È qui che la Lettera ai Filippesi, al cap. 2 diventa un testo decisivo. Paolo non sta offrendo solo un testo poetico da recitare nelle liturgie solenni; sta spiegando qual è il movimento fondamentale della fede cristiana. Cristo è presentato come colui che condivide la condizione di Dio, ma che non trattiene questa condizione come un privilegio da difendere. Il verbo che Paolo usa — “svuotare” — è il cuore di tutto l’inno. Indica una scelta precisa: rinunciare a ogni distanza protettiva, non preservarsi, non restare in una zona separata dall’umano. Cristo assume la forma di servo non come un travestimento, ma come una realtà. Entra nel mondo nella forma più esposta, si misura con ciò che per noi significa essere fragili, vive una morte che non ha nulla di nobile o necessario. Paolo non mostra Cristo che compie un gesto straordinario per un tempo limitato. Mostra il modo stesso in cui Dio decide di farsi conoscere. Lo stile di Dio — se si può usare questa parola — non è quello di chi domina la storia dall’esterno, ma di chi entra dentro la storia assumendone il peso. L’esaltazione finale non è un ritorno a una gloria perduta, è la conferma che l’abbassamento non contraddice la divinità: la rivela. In Filippesi 2 non troviamo una spiritualità del sacrificio, ma una teologia della prossimità. Dio non si manifesta sottraendosi a ciò che ci rende fragili; si manifesta prendendolo su di sé. È il contrario della religiosità naturale, che cerca il divino nella forza che risolve. Qui, invece, la salvezza nasce dall’impossibilità di distinguere Dio dalla nostra condizione umana.

Ed è qui che si apre uno spiraglio sul Natale. Non come festa sentimentale, né come parentesi luminosa da riempire di buoni propositi. Il Natale, nella sua forma essenziale, è la conferma storica di ciò che Filippesi annuncia in modo teologico: Dio entra nel mondo scegliendo l’umanità. Non sceglie un luogo forte, non sceglie un tempo favorevole, non sceglie un contesto che gli garantisca ascolto. Nasce in una condizione ordinaria e precaria, e non lo fa per commuovere, ma perché questo è il modo in cui Dio ha deciso di agire. A volte pensiamo che il Natale celebri la dolcezza di un bambino. In realtà celebra una scelta che continua a interrogare la Chiesa: la scelta di Dio per ciò che non brilla. La scelta per l’insignificante. La scelta per la soglia più bassa dell’umano. È un modo diverso di parlare della stessa kenosi: nel Natale non contempliamo un gesto affettuoso di Dio, ma la sua logica. Non ci viene chiesto di essere fragili per forza; ci viene chiesto di smettere di immaginare che Dio sia riconoscibile solo nella forza. Non dobbiamo diventare forti. Dobbiamo solo smettere di cercare Dio nel vento impetuoso, nel terremoto, nel fuoco. Perché, se il Vangelo ha ragione, Dio è già nella brezza leggera. E non perché sia più delicata, ma perché è più vera.

Sereno e Santo Natale a tutti.
Rubrica a cura di Pietro Santoro
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