Church Pocket/92. Diaconesse: perché oggi la risposta resta “no”
La Chiesa ribadisce i limiti del Magistero, ma chiede di valorizzare la diaconia battesimale.
Che il diaconato femminile sia un tema sentito “dal basso” è chiaro. Già Elena, nel primo pezzo, ci aveva provocati alla riflessione. Poi la discussione è tornata, e abbiamo provato a entrare più nel tecnico: battesimo e Ordine, potestas di governo, prefetti laici, distinzione tra sacerdozio comune e ministeriale. Ora, nel frattempo, è arrivato sul tavolo un documento pesante: la relazione della Commissione del cardinale Petrocchi sul diaconato femminile, resa pubblica il 4 dicembre. La domanda è semplice: cosa cambia davvero, dopo queste sette pagine? Cerco di spiegare la questione, entrando anche in un terreno inevitabilmente tecnico, ma provando a usare il linguaggio più chiaro possibile. Se non ci riuscirò fino in fondo, me ne scuso sin d’ora.
La Commissione dice un “no” al diaconato femminile come grado del sacramento dell’Ordine. Un no motivato, argomentato e — parola chiave — prudenziale. La Commissione Petrocchi ha raccolto i pareri delle precedenti commissioni volute da Papa Francesco e nel testo finale ha dato delle linee guida, non vincolanti. Due punti vengono confermati: nella storia della Chiesa ci sono state donne chiamate “diaconesse”; il loro ministero non è stato, in modo ordinario, l’equivalente femminile del diaconato sacramentale maschile inserito nella successione apostolica (1). Cercando di sintetizzare, il cardinale Petrocchi fotografa con onestà lo scontro teologico in corso.
Da una parte c’è chi insiste sul fatto che l’ordinazione del diacono è ad ministerium, non ad sacerdotium(2).
In questa linea, si potrebbe pensare a un diaconato femminile sacramentale senza toccare il presbiterato, ma sarebbe comunque qualcosa di diverso dal diaconato maschile, non solo nella forma ma anche a livello ontologico.
Qui, nella mia riflessione teologica sul tema, mi trovo a metà del guado. Nel primo articolo scrivevo che la “vera rivoluzione” sarebbe partita dal diaconato femminile. Nel secondo ammettevo che la questione sacramentale non è una formalità giuridica, ma un nodo teologico serio. Il rapporto Petrocchi non mi smentisce, ma mi costringe a essere più onesto: la teologia, su questo punto, non ha ancora fatto i compiti fino in fondo. Un passaggio del testo, secondo me decisivo, rischia di passare inosservato. La Commissione dice, in sostanza: prima ancora di discutere chi può essere ordinato diacono, dobbiamo capire meglio che cos’è il diaconato stesso.
Un altro passaggio interessante riguarda le motivazioni portate dai contributi ricevuti. Molte donne raccontano il loro servizio generoso e faticoso nelle comunità, la percezione di una vocazione, il desiderio di un riconoscimento. Altre chiedono l’ordinazione come segno di uguaglianza e visibilità. Dall’altra parte, alcuni testi giudicano l’ipotesi del diaconato femminile come cedimento allo “spirito del tempo”, confusione antropologica o adesione al pensiero unico del politicamente corretto. A questo punto, anche grazie alle richieste dei lettori, mi sono preso la possibilità di studiare più a fondo il tema, confrontandomi anche con studiosi e docenti di sacramentaria. E c’era un punto che non avevo considerato: nei miei due scritti aprivo a un para-diaconato femminile senza tenere conto che, se si consente l’accesso delle donne al diaconato sacramentale, non si può poi negare l’accesso agli altri due gradi dell’Ordine (presbiterato ed episcopato). E perché questo non è teologicamente possibile? Perché il diaconato non è un ministero isolato: è il primo dei tre gradi dell’unico sacramento dell’Ordine. Non esiste un “Ordine dei diaconi” distinto dall’Ordine dei presbiteri o dei vescovi. È un unico sacramento, che si esprime in tre forme. Ed ecco il nodo: la Chiesa ha dichiarato in modo definitivo di non avere la facoltà di conferire l’ordinazione sacerdotale alle donne. Lo ha fatto con la lettera apostolica Ordinatio Sacerdotalis di Giovanni Paolo II (1994), affermando che questa posizione deve essere tenuta in modo definitivo da tutti i fedeli. Pochi mesi dopo, la Congregazione per la Dottrina della Fede ha chiarito che si tratta di un insegnamento appartenente al Magistero infallibile ordinario e universale. In altre parole: non è una disciplina modificabile. Non è una scelta prudenziale. È un limite che riguarda la volontà di Cristo e la natura stessa del ministero sacerdotale, che agisce in persona Christi Capitis. Se dunque il presbiterato e l’episcopato non possono essere conferiti alle donne per ragioni dottrinali definitive, ammettere le donne al diaconato sacramentale creerebbe una contraddizione interna al Magistero stesso: come si può aprire il primo grado dell’Ordine e chiudere il secondo e il terzo? Questo punto, lo ammetto, nei miei primi due articoli non l’avevo considerato a fondo. Ero caduto nella fallacia di trattare il diaconato come un ministero a sé, e non come parte organica dell’Ordine Sacro. È un tassello che cambia la prospettiva: spiega perché la Chiesa può ampliare ruoli e responsabilità delle donne, ma non può — allo stato attuale del Magistero — introdurle nel sacramento dell’Ordine.

Da qui però si apre un altro terreno, che non riguarda il sacerdozio, ma la vita reale della comunità cristiana, passando dalla Teologia Sacramentaria a quella Pastorale. Il rischio oggi non è “non ordinare donne”, ma continuare a pensare la Chiesa con un modello che non valorizza abbastanza ciò che già abbiamo: la dignità battesimale (3), i carismi, la corresponsabilità concreta. Il futuro passa da qui. Dal giusto equilibrio nel Popolo di Dio, evitando la clericalizzazione dei laici e la laicizzazione dei preti — rischi che oggi sono tutt’altro che teorici. Il documento Petrocchi, in fondo, dice proprio questo: la questione del diaconato alle donne non si apre; la questione della loro responsabilità nella Chiesa non può più essere chiusa.
E forse la vera sfida non è chiedere ministeri impossibili, ma pretendere — con fede, intelligenza e un po’ di parresia — che quelli possibili non restino sulla carta.
NOTE
1. Successione apostolica: è la trasmissione ininterrotta del ministero affidato da Cristo agli Apostoli, che mediante l’imposizione delle mani hanno costituito i loro successori, i vescovi, garantendo nel tempo la fedeltà alla fede apostolica e la validità dei sacramenti (cf. At 1,20-26; At 14,23; 1Tm 4,14; 2Tm 1,6). Già la Chiesa antica riconosceva in questa continuità il criterio dell’autenticità ecclesiale: san Clemente Romano parla di una disposizione voluta dagli Apostoli perché il loro ministero continuasse (§42-44), mentre sant’Ireneo di Lione afferma che la vera dottrina si riconosce nella Chiesa che può “enumerare la successione dei vescovi a partire dagli Apostoli” (Adversus haereses, III,3,1).
2. Nel sacramento dell’Ordine, unico nella sua sostanza, si distinguono gradi e modalità diverse di partecipazione. Il sacerdotium ministeriale, proprio dei vescovi e dei presbiteri, comporta la partecipazione al sacerdozio di Cristo e abilita ad agire in persona Christi Capitis – ovvero il ministro ordinato agisce sacramentalmente non a nome proprio, ma come segno efficace di Cristo stesso, Capo della Chiesa, soprattutto nell’Eucaristia e negli atti di governo e santificazione (cf. 1Cor 11,23-26; Ef 5,23; CCC §1548). Il ministerium diaconale, pur appartenendo pienamente al sacramento dell’Ordine, non è ordinato al sacerdozio, ma al servizio della Parola, della liturgia e della carità; per il Magistero afferma che il diacono è ordinato ad ministerium, non ad sacerdotium (cf. At 6,1-6; Fil 1,1; Lumen gentium, 29; CCC §§1569-1570).
3. Mediante il Battesimo i fedeli vengono incorporati a Cristo, resi partecipi del suo sacerdozio, profezia e regalità, e costituiti Popolo di Dio. In forza di tale dignità, tutti i battezzati partecipano, seppur in modo diverso, all’unica missione della Chiesa (cf. Lumen gentium, 9–13; 31; CCC §§781–786; 897). Il sacerdozio comune dei fedeli è la partecipazione di tutti i battezzati all’unico sacerdozio di Cristo, per il quale vengono rigenerati nello Spirito e resi «popolo sacerdotale» con il compito di offrire «sacrifici spirituali», testimoniare Cristo e vivere una vita santa (cf. Lumen gentium 10; Ap 1,6; 1Pt 2,4-10; Rm 12,1). Questo sacerdozio non è lo stesso del sacerdozio ministeriale (proprio di vescovi e presbiteri) e differisce da esso “essenzialmente e non solo di grado”, pur essendo ordinato ad esso e partecipando del medesimo sacerdozio di Cristo (cf. Lumen gentium 10; CCC §§1546-1547).
Che il diaconato femminile sia un tema sentito “dal basso” è chiaro. Già Elena, nel primo pezzo, ci aveva provocati alla riflessione. Poi la discussione è tornata, e abbiamo provato a entrare più nel tecnico: battesimo e Ordine, potestas di governo, prefetti laici, distinzione tra sacerdozio comune e ministeriale. Ora, nel frattempo, è arrivato sul tavolo un documento pesante: la relazione della Commissione del cardinale Petrocchi sul diaconato femminile, resa pubblica il 4 dicembre. La domanda è semplice: cosa cambia davvero, dopo queste sette pagine? Cerco di spiegare la questione, entrando anche in un terreno inevitabilmente tecnico, ma provando a usare il linguaggio più chiaro possibile. Se non ci riuscirò fino in fondo, me ne scuso sin d’ora.

Da una parte c’è chi insiste sul fatto che l’ordinazione del diacono è ad ministerium, non ad sacerdotium(2).
In questa linea, si potrebbe pensare a un diaconato femminile sacramentale senza toccare il presbiterato, ma sarebbe comunque qualcosa di diverso dal diaconato maschile, non solo nella forma ma anche a livello ontologico.
Qui, nella mia riflessione teologica sul tema, mi trovo a metà del guado. Nel primo articolo scrivevo che la “vera rivoluzione” sarebbe partita dal diaconato femminile. Nel secondo ammettevo che la questione sacramentale non è una formalità giuridica, ma un nodo teologico serio. Il rapporto Petrocchi non mi smentisce, ma mi costringe a essere più onesto: la teologia, su questo punto, non ha ancora fatto i compiti fino in fondo. Un passaggio del testo, secondo me decisivo, rischia di passare inosservato. La Commissione dice, in sostanza: prima ancora di discutere chi può essere ordinato diacono, dobbiamo capire meglio che cos’è il diaconato stesso.
Un altro passaggio interessante riguarda le motivazioni portate dai contributi ricevuti. Molte donne raccontano il loro servizio generoso e faticoso nelle comunità, la percezione di una vocazione, il desiderio di un riconoscimento. Altre chiedono l’ordinazione come segno di uguaglianza e visibilità. Dall’altra parte, alcuni testi giudicano l’ipotesi del diaconato femminile come cedimento allo “spirito del tempo”, confusione antropologica o adesione al pensiero unico del politicamente corretto. A questo punto, anche grazie alle richieste dei lettori, mi sono preso la possibilità di studiare più a fondo il tema, confrontandomi anche con studiosi e docenti di sacramentaria. E c’era un punto che non avevo considerato: nei miei due scritti aprivo a un para-diaconato femminile senza tenere conto che, se si consente l’accesso delle donne al diaconato sacramentale, non si può poi negare l’accesso agli altri due gradi dell’Ordine (presbiterato ed episcopato). E perché questo non è teologicamente possibile? Perché il diaconato non è un ministero isolato: è il primo dei tre gradi dell’unico sacramento dell’Ordine. Non esiste un “Ordine dei diaconi” distinto dall’Ordine dei presbiteri o dei vescovi. È un unico sacramento, che si esprime in tre forme. Ed ecco il nodo: la Chiesa ha dichiarato in modo definitivo di non avere la facoltà di conferire l’ordinazione sacerdotale alle donne. Lo ha fatto con la lettera apostolica Ordinatio Sacerdotalis di Giovanni Paolo II (1994), affermando che questa posizione deve essere tenuta in modo definitivo da tutti i fedeli. Pochi mesi dopo, la Congregazione per la Dottrina della Fede ha chiarito che si tratta di un insegnamento appartenente al Magistero infallibile ordinario e universale. In altre parole: non è una disciplina modificabile. Non è una scelta prudenziale. È un limite che riguarda la volontà di Cristo e la natura stessa del ministero sacerdotale, che agisce in persona Christi Capitis. Se dunque il presbiterato e l’episcopato non possono essere conferiti alle donne per ragioni dottrinali definitive, ammettere le donne al diaconato sacramentale creerebbe una contraddizione interna al Magistero stesso: come si può aprire il primo grado dell’Ordine e chiudere il secondo e il terzo? Questo punto, lo ammetto, nei miei primi due articoli non l’avevo considerato a fondo. Ero caduto nella fallacia di trattare il diaconato come un ministero a sé, e non come parte organica dell’Ordine Sacro. È un tassello che cambia la prospettiva: spiega perché la Chiesa può ampliare ruoli e responsabilità delle donne, ma non può — allo stato attuale del Magistero — introdurle nel sacramento dell’Ordine.

Da qui però si apre un altro terreno, che non riguarda il sacerdozio, ma la vita reale della comunità cristiana, passando dalla Teologia Sacramentaria a quella Pastorale. Il rischio oggi non è “non ordinare donne”, ma continuare a pensare la Chiesa con un modello che non valorizza abbastanza ciò che già abbiamo: la dignità battesimale (3), i carismi, la corresponsabilità concreta. Il futuro passa da qui. Dal giusto equilibrio nel Popolo di Dio, evitando la clericalizzazione dei laici e la laicizzazione dei preti — rischi che oggi sono tutt’altro che teorici. Il documento Petrocchi, in fondo, dice proprio questo: la questione del diaconato alle donne non si apre; la questione della loro responsabilità nella Chiesa non può più essere chiusa.
E forse la vera sfida non è chiedere ministeri impossibili, ma pretendere — con fede, intelligenza e un po’ di parresia — che quelli possibili non restino sulla carta.
NOTE
1. Successione apostolica: è la trasmissione ininterrotta del ministero affidato da Cristo agli Apostoli, che mediante l’imposizione delle mani hanno costituito i loro successori, i vescovi, garantendo nel tempo la fedeltà alla fede apostolica e la validità dei sacramenti (cf. At 1,20-26; At 14,23; 1Tm 4,14; 2Tm 1,6). Già la Chiesa antica riconosceva in questa continuità il criterio dell’autenticità ecclesiale: san Clemente Romano parla di una disposizione voluta dagli Apostoli perché il loro ministero continuasse (§42-44), mentre sant’Ireneo di Lione afferma che la vera dottrina si riconosce nella Chiesa che può “enumerare la successione dei vescovi a partire dagli Apostoli” (Adversus haereses, III,3,1).
2. Nel sacramento dell’Ordine, unico nella sua sostanza, si distinguono gradi e modalità diverse di partecipazione. Il sacerdotium ministeriale, proprio dei vescovi e dei presbiteri, comporta la partecipazione al sacerdozio di Cristo e abilita ad agire in persona Christi Capitis – ovvero il ministro ordinato agisce sacramentalmente non a nome proprio, ma come segno efficace di Cristo stesso, Capo della Chiesa, soprattutto nell’Eucaristia e negli atti di governo e santificazione (cf. 1Cor 11,23-26; Ef 5,23; CCC §1548). Il ministerium diaconale, pur appartenendo pienamente al sacramento dell’Ordine, non è ordinato al sacerdozio, ma al servizio della Parola, della liturgia e della carità; per il Magistero afferma che il diacono è ordinato ad ministerium, non ad sacerdotium (cf. At 6,1-6; Fil 1,1; Lumen gentium, 29; CCC §§1569-1570).
3. Mediante il Battesimo i fedeli vengono incorporati a Cristo, resi partecipi del suo sacerdozio, profezia e regalità, e costituiti Popolo di Dio. In forza di tale dignità, tutti i battezzati partecipano, seppur in modo diverso, all’unica missione della Chiesa (cf. Lumen gentium, 9–13; 31; CCC §§781–786; 897). Il sacerdozio comune dei fedeli è la partecipazione di tutti i battezzati all’unico sacerdozio di Cristo, per il quale vengono rigenerati nello Spirito e resi «popolo sacerdotale» con il compito di offrire «sacrifici spirituali», testimoniare Cristo e vivere una vita santa (cf. Lumen gentium 10; Ap 1,6; 1Pt 2,4-10; Rm 12,1). Questo sacerdozio non è lo stesso del sacerdozio ministeriale (proprio di vescovi e presbiteri) e differisce da esso “essenzialmente e non solo di grado”, pur essendo ordinato ad esso e partecipando del medesimo sacerdozio di Cristo (cf. Lumen gentium 10; CCC §§1546-1547).
Rubrica a cura di Pietro Santoro























