S. Maria: Fabio Valente vince un concorso della rivista 'Gente'. In giuria anche Moccia
A Santa Maria, per sua stessa ammissione, lo conoscono in pochi. Grande dunque lo stupore nella piccola comunità della Valletta per l’aver scoperto, sulle pagine di un rotocalco nazionale, di aver uno scrittore in paese. Nelle settimane scorse, “Gente”, testata del gruppo Hearst magazines Italia, ha infatti regalato i famosi “15 minuti di celebrità” predicati da Andy Warhol a Fabio Valente, ingegnere elettronico residente da sette anni in paese, grande appassionato di scrittura. Un amore, il suo, che l’ha spinto a partecipare (e vincere!) al concorso “Diventa scrittore con Gente” promosso nello scorso mese di settembre noto settimanale di attualità.
Ah già, una precisazione: il protagonista di “Trenta trenta quaranta” non è lui. Fabio è in perfetta forma fisica e no, non gira per Santa Maria con una fetta di lardo in tasca!
Fabio Valente
“Ad dire la verità, è stata la mia fidanzata, Tiziana, a scoprire l’iniziativa e a spingermi a partecipare” afferma sorridente. Così, lo scorso autunno, il 44enne originario di Asiago ma da vent’anni in Brianza per lavoro, ha spedito il proprio scritto “Trenta trenta quaranta”, una storia dalle tinte rosa, come richiesto dal regolamento della gara. “Mai avrei pensato di vincere”. Ed invece, tra ben 1802 testi ricevuti, l’apposita giuria del concorso ha scelto proprio il suo, piazzatosi quindi primo a pari merito con Annalisa Mauceri di Cognento (Mo) e Vanessa Roggeri di Decimoputzu (Ca). Una gran soddisfazione dunque per Fabio anche perché a capo della commissione giudicante c’era “nientepopodimenoche” Federico Moccia, regista diventato l’idolo delle ragazzine (e non solo) narrando le vicissitudini di Step e Babi, protagonisti di “Tre metri sopra il cielo” e del sequel “Ho voglia di te”.
Il primo articolo apparso su Gente del 15-11-2011 in cui veniva annunciata la vittoria del racconto di Fabio.
Sotto articolo con il racconto (Gente del 22-11-2011)
Ah già, una precisazione: il protagonista di “Trenta trenta quaranta” non è lui. Fabio è in perfetta forma fisica e no, non gira per Santa Maria con una fetta di lardo in tasca!
TRENTA TRENTA QUARANTA
Sto facendo la dieta a zona e giro con una fetta di lardo in tasca.
Ho passato dieci anni trascinando centocinquanta chili di grasso dalla poltrona al letto in un monolocale di venti metri quadri. Ero morto al mondo, le uniche persone con cui avevo contatti regolari erano il medico della mutua che passava una volta ogni quindici giorni e la donna delle pulizie vietnamita: "buoni iorno, arividerci" due volte la settimana, avevo intuito che il suo nome era Jin Jin. A parte loro, quelli consci della mia esistenza da baccellone nell'appartamento di via Borgazzi quasi si contavano sulle dita di una mano: una prozia di Bari che mi aveva mandato per anni la stessa cartolina da Riccione, ombrelloni gialli su tramonto rosso, finché non gliene avevo mandata una io con una bionda in topless. Lo scambio epistolare si era interrotto d'improvviso ma lei non aveva desistito dall'informarsi di tanto in tanto sul mio stato da una cugina di secondo grado, l'Adele. Adele è l'unica tra i miei parenti ad abitare nel raggio di duecento chilometri da Milano e aveva quindi l'onore di fare visita una volta all'anno al fenomeno non ambulante della famiglia. C'erano poi il vicino di pianerottolo, un settantenne rimbambito che una volta sì e una no schiavettava per delle mezz'ore sulla serratura prima di accorgersi che la porta giusta era quell'altra; c'erano un paio di amici del liceo che venivano ogni tanto per tirarsi su di morale, tutto sommato c'era qualcuno che era finito peggio di loro; c'era il prete del quartiere, passava a Natale e Pasqua, avevo i santini con le benedizioni degli ultimi dieci anni infilati dietro lo specchio del bagno. Quelli della società per cui lavoravo li avevo visti due volte in cinque anni, non occorrono grosse interazioni per uno che fa il web designer di siti porno, non occorrono e neppure si cercano. Passavo ore seduto in mutande davanti al computer, scivolavo con il mouse impiastricciato di cioccolato su migliaia di foto di cazzi culi e tette, li spalmavo sullo schermo, assemblavo ammassi virtuali di carne e pelle. Sesso? Non se ne parlava, con quel tipo di lavoro alla fine mi sarebbe stato più facile avere un'erezione guardando una tribuna politica che una donna.
Diete? Ne avevo provate molte. Quella dissociata, pasta a pranzo e bistecca a cena, niente risultati; quella iperproteica, aveva funzionato per qualche settimana, avevo perso una decina di chili, poi aveva cominciato a puzzarmi di piscio l'alito e mi ero quasi fottuto un rene; quella dell'uomo paleolitico, solo carne cruda, bacche e insalata, interrotta da un'ulcera fulminante.
Questo fino a undici mesi, una morte fa. A farmi rinascere fu un infarto.
Poteva benissimo finire così: qualche ora di agonia e Jin Jin che due giorni dopo mi trova freddo, incassato dentro la poltrona. Invece mi ribaltai sul tavolino di vetro mandandolo in frantumi; il vicino di sotto, sentendo lo schianto (e temendo una perdita d'acqua), chiamò i vigili del fuoco. Mi risvegliai in ospedale, la prima cosa che vidi furono due occhi color smeraldo, i suoi, gli stessi che rivedrò tra dieci minuti. È la prima volta che esco con lei e in questo momento ho quella certezza un po’ infantile di essere l'uomo più felice sulla terra.
Si chiama Nadia, ha trentadue anni, fa la dottoressa. È lei che mi ha operato d'urgenza quel giorno e che mi ha seguito nel decorso postoperatorio, sono i suoi occhi verdi che mi hanno convinto che valeva la pena vivere, è per quegli occhi che in undici mesi ho perso settanta chili di grasso, sostituendoli con quindici di muscoli. È per lei che ho cambiato lavoro, casa, forma.
Non so se Nadia sia così con tutti i pazienti, probabilmente sì, anche se mi piace immaginare quel sorriso speciale tutto e solo per me; questa sera lo sarà di sicuro. Abbiamo parlato per delle ore in ospedale, mi ha detto che non potevo andare avanti così, che stavo buttando via la mia vita, che con un po' di aiuto avrei potuto rivoltarla. Sarebbero rimaste parole vuote se fossero stati altri a pronunciarle.
Ho iniziato una dieta a zona. Da quando me ne ha parlato quei tre numeri, trenta trenta quaranta, sono diventati il mantra che scandisce le mie giornate, ogni volta che li recito salgo di uno scalino verso la mia redenzione. E verso di lei. I concetti base sono semplici, mi ricordo ancora parola per parola quello che mi disse. Si devono consumare i pasti a intervalli regolari, almeno cinque volte al giorno, le calorie devono essere distribuite in maniera equa, in ogni pasto la quantità dei tre componenti fondamentali deve essere suddivisa secondo la regola aurea del trenta trenta quaranta. Trenta per cento grassi, trenta per cento proteine, quaranta per cento carboidrati. Non è stato semplice all'inizio, la dieta a zona richiede spesso acrobazie culinarie, non è facile immaginare un pasto costituito da una pera, quattro cubetti di grana e sette olive. Oppure una colazione con un vasetto di yogurt, l'albume di un uovo e quaranta grammi di cereali. Bisogna pesare tutto, mi sono abituato a girare con una minibilancia elettronica nella ventiquattr'ore, sarebbe stato più facile se avessi continuato il lavoro che facevo nella vita precedente, i clienti spesso si mettono a ridere quando durante la pausa tiro fuori la bilancia per pesare tre fette di bresaola, ma poi gli racconto la storia, mi prendono sul serio. Ho fatto anche proseliti e regalato qualche cliente a Nadia. La cosa più difficile da gestire forse sono i grassi, non è facile trovare alimenti che ne contengano la giusta quantità, un piccolo trucco personale è questa fetta di lardo che mi porto dietro in un sacchetto; lo so, non è una variante ortodossa della dieta, ma sono legato a questo piccola pazzia dietetica: immagino che sia perché mi ricorda in ogni momento ciò che ero e ormai non sono più. In pochi mesi i chili di grasso si sono liquefatti quasi da soli, il resto lo hanno fatto le cinque sessioni settimanali di palestra. Questa mattina ho sollevato centoventi chili in panca, un anno fa facevo fatica a portare l’immondizia fuori dalla porta. Quando sono stato abbastanza convinto che i sorrisi di Nadia potessero essere qualcosa di più che professionali, ho trovato il coraggio di invitarla a cena. La settimana che e’ passata tra giorno in cui mi ha detto si’ e quello in cui mi sono presentato davanti a casa sua sono stati divorati dall’attesa. Il suono del campanello non si era ancora spento, entro cinque secondi mi avrebbe aperto il portone. Ho infilato la mano nella tasca della giacca cercando il regalino che le avevo comprato, l’ho estratta tutta unta. Cazzo! La fetta di lardo. Me la sono dimenticata. La faccia mi si sbianca, sento un dolore al petto. No, cazzo! No! Pulisco freneticamente le dita sul bordo interno della giacca, infilo la mano dentro i pantaloni, la sfrego sulle mutande, la tiro fuori, me la passo tra i capelli. La porta si apre, lei mi fa "Che cos'hai? Sei pallido, dai, vieni dentro, ti presento Phobos e Deimos". Alzo lo sguardo, incontro due occhi verdi, lo riabbasso, ne incrocio quattro neri.
Lei non aveva notato niente, i suoi alani ovviamente sì.
“Strano” ha detto Nadia “gli estranei di solito non li considerano proprio. Guardali adesso! Sembrano in adorazione!”.
“Ehm, sì. Ci so fare con gli animali. Dote di famiglia” ho buttato lì provando a sorridere. In tasca la fetta di lardo si era quasi squagliata.
Per leggere altri racconti di Fabio Valente, è on line il suo blog: http://ciondolon.blogspot.com/
Sto facendo la dieta a zona e giro con una fetta di lardo in tasca.
Ho passato dieci anni trascinando centocinquanta chili di grasso dalla poltrona al letto in un monolocale di venti metri quadri. Ero morto al mondo, le uniche persone con cui avevo contatti regolari erano il medico della mutua che passava una volta ogni quindici giorni e la donna delle pulizie vietnamita: "buoni iorno, arividerci" due volte la settimana, avevo intuito che il suo nome era Jin Jin. A parte loro, quelli consci della mia esistenza da baccellone nell'appartamento di via Borgazzi quasi si contavano sulle dita di una mano: una prozia di Bari che mi aveva mandato per anni la stessa cartolina da Riccione, ombrelloni gialli su tramonto rosso, finché non gliene avevo mandata una io con una bionda in topless. Lo scambio epistolare si era interrotto d'improvviso ma lei non aveva desistito dall'informarsi di tanto in tanto sul mio stato da una cugina di secondo grado, l'Adele. Adele è l'unica tra i miei parenti ad abitare nel raggio di duecento chilometri da Milano e aveva quindi l'onore di fare visita una volta all'anno al fenomeno non ambulante della famiglia. C'erano poi il vicino di pianerottolo, un settantenne rimbambito che una volta sì e una no schiavettava per delle mezz'ore sulla serratura prima di accorgersi che la porta giusta era quell'altra; c'erano un paio di amici del liceo che venivano ogni tanto per tirarsi su di morale, tutto sommato c'era qualcuno che era finito peggio di loro; c'era il prete del quartiere, passava a Natale e Pasqua, avevo i santini con le benedizioni degli ultimi dieci anni infilati dietro lo specchio del bagno. Quelli della società per cui lavoravo li avevo visti due volte in cinque anni, non occorrono grosse interazioni per uno che fa il web designer di siti porno, non occorrono e neppure si cercano. Passavo ore seduto in mutande davanti al computer, scivolavo con il mouse impiastricciato di cioccolato su migliaia di foto di cazzi culi e tette, li spalmavo sullo schermo, assemblavo ammassi virtuali di carne e pelle. Sesso? Non se ne parlava, con quel tipo di lavoro alla fine mi sarebbe stato più facile avere un'erezione guardando una tribuna politica che una donna.
Diete? Ne avevo provate molte. Quella dissociata, pasta a pranzo e bistecca a cena, niente risultati; quella iperproteica, aveva funzionato per qualche settimana, avevo perso una decina di chili, poi aveva cominciato a puzzarmi di piscio l'alito e mi ero quasi fottuto un rene; quella dell'uomo paleolitico, solo carne cruda, bacche e insalata, interrotta da un'ulcera fulminante.
Questo fino a undici mesi, una morte fa. A farmi rinascere fu un infarto.
Poteva benissimo finire così: qualche ora di agonia e Jin Jin che due giorni dopo mi trova freddo, incassato dentro la poltrona. Invece mi ribaltai sul tavolino di vetro mandandolo in frantumi; il vicino di sotto, sentendo lo schianto (e temendo una perdita d'acqua), chiamò i vigili del fuoco. Mi risvegliai in ospedale, la prima cosa che vidi furono due occhi color smeraldo, i suoi, gli stessi che rivedrò tra dieci minuti. È la prima volta che esco con lei e in questo momento ho quella certezza un po’ infantile di essere l'uomo più felice sulla terra.
Si chiama Nadia, ha trentadue anni, fa la dottoressa. È lei che mi ha operato d'urgenza quel giorno e che mi ha seguito nel decorso postoperatorio, sono i suoi occhi verdi che mi hanno convinto che valeva la pena vivere, è per quegli occhi che in undici mesi ho perso settanta chili di grasso, sostituendoli con quindici di muscoli. È per lei che ho cambiato lavoro, casa, forma.
Non so se Nadia sia così con tutti i pazienti, probabilmente sì, anche se mi piace immaginare quel sorriso speciale tutto e solo per me; questa sera lo sarà di sicuro. Abbiamo parlato per delle ore in ospedale, mi ha detto che non potevo andare avanti così, che stavo buttando via la mia vita, che con un po' di aiuto avrei potuto rivoltarla. Sarebbero rimaste parole vuote se fossero stati altri a pronunciarle.
Ho iniziato una dieta a zona. Da quando me ne ha parlato quei tre numeri, trenta trenta quaranta, sono diventati il mantra che scandisce le mie giornate, ogni volta che li recito salgo di uno scalino verso la mia redenzione. E verso di lei. I concetti base sono semplici, mi ricordo ancora parola per parola quello che mi disse. Si devono consumare i pasti a intervalli regolari, almeno cinque volte al giorno, le calorie devono essere distribuite in maniera equa, in ogni pasto la quantità dei tre componenti fondamentali deve essere suddivisa secondo la regola aurea del trenta trenta quaranta. Trenta per cento grassi, trenta per cento proteine, quaranta per cento carboidrati. Non è stato semplice all'inizio, la dieta a zona richiede spesso acrobazie culinarie, non è facile immaginare un pasto costituito da una pera, quattro cubetti di grana e sette olive. Oppure una colazione con un vasetto di yogurt, l'albume di un uovo e quaranta grammi di cereali. Bisogna pesare tutto, mi sono abituato a girare con una minibilancia elettronica nella ventiquattr'ore, sarebbe stato più facile se avessi continuato il lavoro che facevo nella vita precedente, i clienti spesso si mettono a ridere quando durante la pausa tiro fuori la bilancia per pesare tre fette di bresaola, ma poi gli racconto la storia, mi prendono sul serio. Ho fatto anche proseliti e regalato qualche cliente a Nadia. La cosa più difficile da gestire forse sono i grassi, non è facile trovare alimenti che ne contengano la giusta quantità, un piccolo trucco personale è questa fetta di lardo che mi porto dietro in un sacchetto; lo so, non è una variante ortodossa della dieta, ma sono legato a questo piccola pazzia dietetica: immagino che sia perché mi ricorda in ogni momento ciò che ero e ormai non sono più. In pochi mesi i chili di grasso si sono liquefatti quasi da soli, il resto lo hanno fatto le cinque sessioni settimanali di palestra. Questa mattina ho sollevato centoventi chili in panca, un anno fa facevo fatica a portare l’immondizia fuori dalla porta. Quando sono stato abbastanza convinto che i sorrisi di Nadia potessero essere qualcosa di più che professionali, ho trovato il coraggio di invitarla a cena. La settimana che e’ passata tra giorno in cui mi ha detto si’ e quello in cui mi sono presentato davanti a casa sua sono stati divorati dall’attesa. Il suono del campanello non si era ancora spento, entro cinque secondi mi avrebbe aperto il portone. Ho infilato la mano nella tasca della giacca cercando il regalino che le avevo comprato, l’ho estratta tutta unta. Cazzo! La fetta di lardo. Me la sono dimenticata. La faccia mi si sbianca, sento un dolore al petto. No, cazzo! No! Pulisco freneticamente le dita sul bordo interno della giacca, infilo la mano dentro i pantaloni, la sfrego sulle mutande, la tiro fuori, me la passo tra i capelli. La porta si apre, lei mi fa "Che cos'hai? Sei pallido, dai, vieni dentro, ti presento Phobos e Deimos". Alzo lo sguardo, incontro due occhi verdi, lo riabbasso, ne incrocio quattro neri.
Lei non aveva notato niente, i suoi alani ovviamente sì.
“Strano” ha detto Nadia “gli estranei di solito non li considerano proprio. Guardali adesso! Sembrano in adorazione!”.
“Ehm, sì. Ci so fare con gli animali. Dote di famiglia” ho buttato lì provando a sorridere. In tasca la fetta di lardo si era quasi squagliata.
Per leggere altri racconti di Fabio Valente, è on line il suo blog: http://ciondolon.blogspot.com/
A. M.