Church Pocket/88. Il purgatorio: un passaggio di luce

Quando ci si prepara a un incontro importante, nessuno si presenta con i vestiti sporchi o trasandati. È un gesto spontaneo: ci si sistema, ci si purifica, perché la persona che stiamo per incontrare merita il meglio. Così è anche nella vita spirituale: l’incontro con Dio, che è santità e bellezza assoluta, chiede un cuore pronto. Non perché Lui sia severo, ma perché la sua luce non sopporta ombre.
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La Chiesa chiama questo tempo di preparazione purgatorio. Non è un castigo, ma una grazia: un passaggio per chi è morto in amicizia con Dio ma porta ancora con sé ferite, imperfezioni, peccati non del tutto guariti. Il Catechismo descrive questo “passaggio” come il momento di  «coloro che muoiono nella grazia e nell’amicizia di Dio, ma non sono pienamente purificati, benché sicuri della loro salvezza eterna, soffrono dopo la loro morte una purificazione, al fine di ottenere la santità necessaria per entrare nella gioia del cielo» (§1030). 
È un cambio di prospettiva dalla visione comune: il purgatorio non è un “secondo inferno”, non è un limbo angosciante, ma un tempo di guarigione. È il luogo dove la misericordia di Dio sana ciò che ancora appesantisce il cuore nella relazione con Dio. Un fuoco, sì, ma fuoco d’amore, che purifica come l’oro nel crogiolo (Sap 3,6).
Molti santi hanno parlato del purgatorio come di un dono. Santa Caterina da Genova racconta che le anime purganti vivono una gioia e un dolore insieme: dolore per non essere ancora arrivate a vedere Dio, gioia perché sanno di essere salve e che tra immerse nel suo amore. Questa è una lettura che dà pace: nessuno è perduto, e persino le nostre imperfezioni trovano in Dio la via di trasformarsi in santità. Ecco perché il purgatorio è una speranza. È la “stanza d’attesa” prima di entrare dal medico dell’amore: non un tribunale tecnico, ma il luogo della misericordia che prepara l’anima all’abbraccio d’amore con Dio. Pregare per i defunti, allora, non significa affatto giudicarli per i loro peccati, ma accompagnarli con amore in questo cammino di purificazione. È un gesto di carità che aiuta il loro viaggio verso l’eternità divina.
E noi cosa possiamo fare per alleviare le anime del purgatorio? Possiamo sostenerle con la preghiera, specialmente con l’Eucaristia, che è il sacrificio d’amore di Cristo, l’Amore di Dio per eccellenza. San Tommaso d’Aquino ci ricorda che: «Il sacrificio dell’altare giova in modo particolare ai defunti, perché è offerto per loro in modo specifico» (Summa Theologiae, Suppl., q.71, a.9). Non è un’invenzione di marketing, ma verità creduta sin dai primi secoli. Sant’Agostino, infatti, racconta nelle Confessioni che, prima di morire, sua madre Monica gli aveva chiesto una sola cosa: «Ricordatevi di me all’altare del Signore» (Conf. IX,12-13). Non desiderava un funerale solenne o una tomba lucente, ma l’offerta della Messa. È uno dei testi più antichi che fonda la preghiera cristiana per i defunti: davanti all’altare il legame tra vivi e morti continua, perché lì agisce il sacrificio di Cristo, più forte di ogni separazione. 
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Il purgatorio non è l’ultima parola: è la penultima. L’ultima è il cielo. E pensarlo così cambia lo sguardo: non paura, ma gratitudine. Perché perfino nel dopo-morte Dio continua a prendersi cura di noi, fino a renderci capaci di stare davanti a Lui a volto scoperto, senza più macchie né ferite. Il purgatorio possiamo immaginarlo così: come una stanza di luce, dove Dio rifinisce con pazienza ciò che in noi non era ancora compiuto. Non è una prigione, ma un atelier d’amore, dove la grazia completa i contorni sbiaditi e ricompone le fratture della nostra vita. Usciremo da quella stanza non più appesantiti, ma trasfigurati, pronti a stare davanti a Lui con un volto finalmente luminoso.
Rubrica a cura di Pietro Santoro
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