Church Pocket/87. Ricordare i defunti: proclamare la vita

Il cimitero in novembre ha un’atmosfera tutta sua. Fiori, candele, camminate lente tra le tombe. Non servono tante parole, per quanto non mi manchino mai: basta guardare quei gesti per capire che quel luogo è custode silente di qualcosa di più profondo della fugace memoria. In quei lumini tremolanti, nelle mani che sistemano un vaso o accarezzano una foto di un vecchio defunto, c’è la vertà di fede, silenziosa, che i legami non finiscono con la morte. È un linguaggio popolare, ma dice più di tanti tecnicismi di materia: chi amiamo non può sparire, resta con noi. L’amore non si spegne. Santa Caterina da Siena lo diceva piena di passione, quasi scandalosa per il suo tempo: «La tua fiamma, Signore, è più forte di ogni cosa, più forte perfino della morte». La fede cristiana traduce invita a ricordare i defunti non solo per guardare al passato, ma per proclamare che la morte non è l’ultima parola. Gesù nel Vangelo di Giovanni dice: «Chi viene a me, non lo caccerò fuori. Questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma lo risusciti nell’ultimo giorno» (Gv 6,37 – 39). Non è solo una possibilità futura: è la certezza che già ora i nostri cari vivono custoditi nel seno di Dio.
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Ecco che il gesto di andare al cimitero non può essere visto come un rito vuoto o una tradizione da rispettare per convenzione sociale. È un atto di fede: credere che la vita è più forte della morte, che chi ci ha preceduto “nel segno della fede” – come recita la Preghiera Eucaristica I, il Canone Romano – continua a vivere. La memoria cristiana non è una mera nostalgia, è e deve essere piena speranza. Lo so, leggendomi, penserai che sia un pazzo o che ripeto parole lette e studiare da qualche vescovo qui li. Ma proprio qui si gioca la fede cattolica, trasmessa dagli Apostoli. Ogni nome inciso sulla pietra lapidaria è un nome che Dio ricorda, ogni volto che noi conserviamo nel cuore è un volto che Dio custodisce nella sua luce. Lo si proclama anche la liturgia, nel Prefazio dei defunti: «Ai tuoi fedeli, Signore, la vita non è tolta, ma trasformata; e mentre si distrugge la dimora di questo esilio terreno, viene preparata un’abitazione eterna nel cielo». Non è un modo poetico per addolcire un evento sicuramente difficile come la morte, ma la fede della Chiesa che annuncia un passaggio reale: ciò che ci sembra una fine è in realtà una trasformazione. La vita non viene cancellata, cambia forma. Quello che per noi appare come separazione definitiva, per Dio è nascita a una vita più grande, in una casa che non conosce tramonto. Ma quindi perché ricordiamo i defunti? Non è solo questione di affetto umano o di tradizione familiare. Li ricordiamo per amore, perché l’amore vero non si interrompe con la morte: come dice il Cantico dei Cantici, «forte come la morte è l’amore» (Ct 8,6). Li ricordiamo per fede, perché la comunione dei santi ci assicura che in Cristo siamo un solo corpo: le nostre preghiere possono davvero giovare a chi è già nella pace o in purificazione, così come i santi intercedono per noi. È la grande circolazione dei beni spirituali che attraversa la Chiesa pellegrina, purgante e trionfante. Li ricordiamo infine per speranza, perché il Vangelo promette che «chi crede ha la vita eterna» (Gv 6,47). Pregare per i morti, allora, non è un gesto triste o nostalgico: è proclamare che la morte non è mai l’ultima parola, ma che i nostri cari vivono già custoditi in Dio, in attesa della risurrezione finale quando «ogni lacrima sarà asciugata» (Ap 21,4).
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Per questo, quando camminiamo tra le tombe e vediamo i fiori, che presto appassiscono, non possiamo restare prigionieri della malinconia. Sono segni fragili, ma dicono che l’amore non muore. «Le anime dei giusti sono nelle mani di Dio, nessun tormento le toccherà. Agli occhi degli stolti parve che morissero, ma essi sono nella pace» (Sap 3,1.3): è questa la speranza che ci accompagna! I nostri defunti non sono svaniti nel nulla, ma vivono custoditi nelle mani di Dio. E noi, ricordandoli, non facciamo altro che proclamare che la vita è più forte della morte, e che un giorno li ritroveremo nella luce.
Rubrica a cura di Pietro Santoro
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