Mare Nostrum

La Global Sumud Flotilla non è soltanto un atto di solidarietà: è un gesto politico, un atto di disobbedienza civile che rimette al centro un principio elementare – il mare non appartiene a chi ha più cannoni, ma a chi rispetta le regole comuni. Non basteranno poche tonnellate di aiuti a cambiare la realtà di Gaza, ma la forza simbolica sta proprio qui: spezzare, anche solo per un attimo, l’assedio dell’indifferenza.
Eppure, in Italia, si assiste a una contraddizione lampante. La destra che ama richiamarsi alla gloria militare, al mare nostrum, all’orgoglio nazionale, oggi si ritrae al pensiero che il tricolore possa sventolare accanto a una causa scomoda. Patriottismo a corrente alternata: fierezza quando conviene, silenzio quando imbarazza. Ma se la bandiera italiana vale, vale sempre – non solo quando la issano navi “gradite” al governo di turno. Difenderla solo a comando politico significa trasformarla in un gadget da campagna elettorale, non in un simbolo di dignità nazionale.
Il diritto internazionale del mare è chiaro: da oltre due secoli garantisce la cooperazione tra nazioni, i commerci, la sicurezza della navigazione. È uno dei pilastri che ha reso possibile la crescita globale. Ma se uno Stato decide di ignorarlo? Se, per convenienza politica, si accetta che alcune navi possano essere fermate arbitrariamente, si apre la porta alla legge del più forte. E allora sì che il Mediterraneo tornerà a essere terra di nessuno, dove comanda chi ha le armi più grandi.
La Global Sumud Flotilla manda un messaggio che va oltre Gaza. A bordo ci sono volontari provenienti da oltre quaranta Paesi: non è solo un convoglio umanitario, è un’affermazione politica. Dice che le regole comuni devono valere sempre, e che nessuno Stato può rivendicare un’eccezione permanente senza minare la legittimità del sistema internazionale.
Certo, i rischi ci sono. È vero che la flottiglia può essere strumentalizzata da attori politici, che la sua immagine può essere sfruttata a fini propagandistici. Ma fingere che questo annulli il principio in gioco è una scusa comoda. Significa accettare che i diritti universali si applicano solo quando non disturbano equilibri geopolitici o rapporti diplomatici. È questa ipocrisia che disarma l’Europa e rende l’Italia sempre più marginale nello scacchiere mediterraneo.
E poi c’è l’interesse nazionale. Se l’Italia abbassa la testa, se lascia che la propria bandiera venga umiliata, il segnale è chiaro: siamo disposti a sacrificare la nostra credibilità pur di non disturbare gli amici potenti. Oggi riguarda Gaza, domani potrebbe riguardare la pesca dei nostri marinai o la sicurezza delle nostre motovedette. Se accettiamo di rinunciare alla coerenza, chi ci garantirà che domani altri Stati non allarghino le proprie pretese? La credibilità internazionale non si fonda su proclami muscolari, ma sulla coerenza. E qui stiamo dimostrando di non averne.
“Chi parte se la va a cercare”, si sente dire. Ma questa frase è una resa: una nave battente bandiera italiana è Italia, ovunque si trovi. Attaccarla equivale a un atto di ostilità. Non occorre condividere le finalità della flottiglia per difendere un principio così semplice. Chi riduce la questione a un “se la sono cercata” rinnega lo stesso patriottismo che a parole proclama.
Infine, c’è la questione morale. Oggi la flottiglia è, piaccia o no, uno dei pochi gesti concreti che cercano di rompere il silenzio sulla tragedia umanitaria di Gaza. Se anche questa voce viene spenta, resterà solo il vuoto. La storia ci insegna che spesso non sono i grandi eserciti a cambiare il corso degli eventi, ma i gesti isolati e fuori dagli schemi: dal giovane sconosciuto di piazza Tienanmen a chi ha sfidato muri e blocchi apparentemente eterni. Non sempre hanno vinto subito, ma hanno costretto il mondo a guardare ciò che avrebbe preferito ignorare.
La Global Sumud Flotilla fa proprio questo: mostra che c’è ancora chi non si piega, che non accetta che il diritto internazionale venga applicato a intermittenza. Se l’Italia sceglie di voltarsi dall’altra parte, non sarà un atto di prudenza, ma di vigliaccheria politica. Perché abbassare la bandiera in acque internazionali non è neutralità: è inginocchiarsi davanti al più forte.
Francesco Cattaneo
Invia un messaggio alla redazione

Il tuo indirizzo email ed eventuali dati personali non verranno pubblicati.