Gli attentati attendono l’oblio. E gli attentatori, l’impunità
Il 2 giugno del 2024 attorno alle 22 un altro attentato a giornalisti di questa testata mandava in fumo la terza autovettura. E questa volta, a differenza del 12 ottobre 2020 - due auto distrutte - senza l’avvertenza di almeno evitare danni più gravi a cose e persone, con l’innesco dell’incendio a pochi centimetri dalla tubazione del gas. Solo l’intervento della proprietà e poi dei vigili del fuoco, molto rapido, hanno scongiurato un’esplosione che avrebbe potuto danneggiare gravemente l’edificio e ferire qualcuno.
Stante le circostanze (campagne elettorali in corso) e la tempistica si poteva presumere l’intervento della Divisione Investigazioni Generali e Operazioni Speciali (Digos) della Polizia. Invece ha prevalso l’organizzazione territoriale pensata e scritta chissà dove.
E ora a distanza di oltre un anno anche questo attentato – il primo è stato archiviato per l’impossibilità di risalire ai responsabili – rischia di prendere la strada dell’archiviazione.
Eppure questa volta ci sono notevoli elementi tratti dalle telecamere e perfino qualcosa di più di una “soffiata”, una pista da seguire. Ma a quanto risulta si brancola nel buio e il rischio che il faldone vada a prendere polvere è reale.
Infatti dopo il passaggio da un PM all’altro, il fascicolo – non si sa quanto voluminoso – è finito sul tavolo del Procuratore, il quale, interpellato dall’avvocato di fiducia della parte civile, ha chiesto allo stesso una memoria-relazione, per ricostruire la vicenda (di cui evidentemente – pur senza colpa – era pressoché all’oscuro).
Così funzionano le cose in Italia, o quanto meno in questa parte ricca del Paese. L’archiviazione sembra essere L’ineluttabile fine di questi pur gravissimi fatti.
Ma nel frattempo c’è una liturgia sfiancante, che siano i carabinieri di Lecco che siano quelli di Merate a indagare: sotto torchio vengono messe le vittime, interrogate per ore, loro è tutto l’entourage di parenti fino al quarto grado, amici e financo conoscenti. Naturalmente non senza un periodo di intercettazione telefonica, sia mai che si tradiscano dicendo qualcosa (la cui traduzione sul brogliaccio risente dell’idioma locale del “traduttore”) e di controllo delle celle telefoniche (ben sapendo che se il ripetitore più vicino è saturo, il segnale rimbalza al successivo raccontando così tutta un’altra storia, sulla quale però gli “inquirenti” magari ci costruiscono le loro “indagini”).
Ancora sei mesi, diciamo alla fine dell’anno e poi anche questo fascicolo sarà archiviato a causa della poco brillante circostanza che ignoto uno e due più tre il complice in auto, saranno rimasti tali.
Verrebbe da dire, avanti un altro, ma non forziamo la mano. L’impunità assicurata provvede già da stimolo. La retorica di questo regime di finta destra invoca uno scudo penale per gli agenti violenti. Forse sarebbe più opportuno organizzare corsi di intelligence anche per coloro che operano nelle stazioni più piccole, troppo spesso oberati di lavori civili come raccogliere denunce (anche loro per lo più in archivio senza esito).
Si potrebbe anche aggiungere un corso di buona creanza: dopo due attentati di questa portata una convocazione di cortesia – non per il tragico interrogatorio – sarebbe stata apprezzata. O quanto meno farsi trovare al telefono.
A meno che il ritmo frenetico delle indagini abbia fatto dimenticare la civile procedura. Così, nessuno parla, nessuno dice, nessuno spiega, nessuno aggiorna. Tutti trincerati dietro la frase di rito: “Stiamo lavorando . . . .!!
E mentre le vittime aspettano ormai sfiduciate, l’oblio lavora. Per seppellire definitivamente il fascicolo.
E con esso il senso compiuto della Giustizia.
Per l’orgoglio ferito dall’insuccesso c’è sempre la cura di un buon caffè nel bar preferito.
Stante le circostanze (campagne elettorali in corso) e la tempistica si poteva presumere l’intervento della Divisione Investigazioni Generali e Operazioni Speciali (Digos) della Polizia. Invece ha prevalso l’organizzazione territoriale pensata e scritta chissà dove.
E ora a distanza di oltre un anno anche questo attentato – il primo è stato archiviato per l’impossibilità di risalire ai responsabili – rischia di prendere la strada dell’archiviazione.
Eppure questa volta ci sono notevoli elementi tratti dalle telecamere e perfino qualcosa di più di una “soffiata”, una pista da seguire. Ma a quanto risulta si brancola nel buio e il rischio che il faldone vada a prendere polvere è reale.
Infatti dopo il passaggio da un PM all’altro, il fascicolo – non si sa quanto voluminoso – è finito sul tavolo del Procuratore, il quale, interpellato dall’avvocato di fiducia della parte civile, ha chiesto allo stesso una memoria-relazione, per ricostruire la vicenda (di cui evidentemente – pur senza colpa – era pressoché all’oscuro).
Così funzionano le cose in Italia, o quanto meno in questa parte ricca del Paese. L’archiviazione sembra essere L’ineluttabile fine di questi pur gravissimi fatti.
Ma nel frattempo c’è una liturgia sfiancante, che siano i carabinieri di Lecco che siano quelli di Merate a indagare: sotto torchio vengono messe le vittime, interrogate per ore, loro è tutto l’entourage di parenti fino al quarto grado, amici e financo conoscenti. Naturalmente non senza un periodo di intercettazione telefonica, sia mai che si tradiscano dicendo qualcosa (la cui traduzione sul brogliaccio risente dell’idioma locale del “traduttore”) e di controllo delle celle telefoniche (ben sapendo che se il ripetitore più vicino è saturo, il segnale rimbalza al successivo raccontando così tutta un’altra storia, sulla quale però gli “inquirenti” magari ci costruiscono le loro “indagini”).
Ancora sei mesi, diciamo alla fine dell’anno e poi anche questo fascicolo sarà archiviato a causa della poco brillante circostanza che ignoto uno e due più tre il complice in auto, saranno rimasti tali.
Verrebbe da dire, avanti un altro, ma non forziamo la mano. L’impunità assicurata provvede già da stimolo. La retorica di questo regime di finta destra invoca uno scudo penale per gli agenti violenti. Forse sarebbe più opportuno organizzare corsi di intelligence anche per coloro che operano nelle stazioni più piccole, troppo spesso oberati di lavori civili come raccogliere denunce (anche loro per lo più in archivio senza esito).
Si potrebbe anche aggiungere un corso di buona creanza: dopo due attentati di questa portata una convocazione di cortesia – non per il tragico interrogatorio – sarebbe stata apprezzata. O quanto meno farsi trovare al telefono.
A meno che il ritmo frenetico delle indagini abbia fatto dimenticare la civile procedura. Così, nessuno parla, nessuno dice, nessuno spiega, nessuno aggiorna. Tutti trincerati dietro la frase di rito: “Stiamo lavorando . . . .!!
E mentre le vittime aspettano ormai sfiduciate, l’oblio lavora. Per seppellire definitivamente il fascicolo.
E con esso il senso compiuto della Giustizia.
Per l’orgoglio ferito dall’insuccesso c’è sempre la cura di un buon caffè nel bar preferito.
Claudio Brambilla