Church pocket/70. Uno, solo. Come non dovrebbe mai essere
Dopo la morte di don Matteo, una riflessione che riguarda tutti: vescovi, preti, laici. E il cuore della Chiesa.
C’è un oratorio che oggi ha le luci spente. Un tavolo apparecchiato per uno. E una sedia vuota. Sabato 5 luglio 2025, a Cannobio, sul Lago Maggiore, un giovane prete ha deciso di andarsene. Don Matteo Balzano aveva 35 anni. Lo cercavano in tanti: i ragazzi, le famiglie, i fedeli. Ma nessuno, forse, ha visto davvero cosa portava dentro. Un peso. Un silenzio. Una solitudine che ha scavato piano. E adesso resta il vuoto. E una domanda che fa male: com'è possibile che un prete, così, muoia da solo? Don Matteo è morto in silenzio. Nell’appartamento dell’oratorio, il luogo dove dormiva, lavorava, pregava. Il luogo dove nessuno ha sentito il grido. Ora piangiamo. Ma — diciamolo senza giri di parole — è tardi. Ogni volta che succede, si ripete lo stesso copione. Si prega. Si ricorda il bene fatto. Si dice “che tragedia”. E poi? Poi si va avanti. Come se nulla fosse. E invece no. Fermiamoci. E diciamoci la verità: nella Chiesa di oggi, molti preti stanno male. E troppi stanno male da soli.
Ci sono sacerdoti che si consumano nel silenzio. Che portano tutto sulle spalle: messe, bollette, catechismo, malati, burocrazia, gruppi, litigi, a volte anche più parrocchie contemporaneamente. E quando arriva la loro solitudine, quella vera, nessuno c’è. O peggio: qualcuno se ne accorge, ma gira la faccia. Don Matteo non è l’unico. È il volto concreto di tanti. Quelli che non parlano. Che reggono per anni. Che sorridono anche quando dentro si spezzano. Ma una vocazione non è fatta per stare da sola. Un prete non è nato per fare l’eroe solitario.

La Chiesa ha bisogno di vocazioni. Ma prima ancora ha bisogno di fratelli veri, di vescovi padri, di comunità che sappiano voler bene. Ha bisogno di preti che non vengano lasciati a gestire tutto da soli. E di laici che non li vedano solo come “quello che dice Messa” o come superuomini, ma come persone. Uomini. Con la loro fragilità. C’è bisogno di ascolto vero, non di riunioni. Di compagnia concreta, non di lettere pastorali. Di affetto umano, non solo spirituale. C’è bisogno, diciamolo, di una Chiesa che non abbia paura di parlare di sofferenza psicologica. Di dire che anche un prete può cadere. Può non farcela. Può avere bisogno di uno psicologo, di un amico, di un abbraccio. Don Matteo è morto in un oratorio. Un luogo che dovrebbe essere vita, gioco, festa. E invece è diventato il teatro della sua solitudine. Ma forse il suo gesto ci chiede proprio questo: di smettere, come Chiesa, di girare la faccia. Di iniziare a prenderci cura di chi ci guida. Di domandarci: quanti altri stanno così?

C’è chi ha fede e a chi non basta e crolla. C’è chi predica il Vangelo e poi torna in una casa vuota. Forse don Matteo ha cenato da solo, quella sera. Nessuna voce. Nessuno accanto. Sorella Solitudine seduta di fronte a lui. Da tempo. Questa scena, più di mille omelie, dice tutto. Dice che non bastano le parole. Servono gesti. Serve qualcuno che bussi alla porta, che dica “come stai?” senza secondi fini. Serve una Chiesa che si ricordi che dietro ogni talare c’è un uomo, un cuore, una storia. Perché Gesù, quando ha mandato i suoi, non li ha mandati da soli. Li ha mandati a due a due (Luca 10). Perché da soli, non si regge. Una vocazione, da sola, non basta. La vocazione, da sola, muore. Ma se una vocazione incontra un volto, un amico, una mano tesa, può tornare a respirare. E forse, allora, qualcosa può cambiare. Anche adesso. Anche da qui.
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C’è un oratorio che oggi ha le luci spente. Un tavolo apparecchiato per uno. E una sedia vuota. Sabato 5 luglio 2025, a Cannobio, sul Lago Maggiore, un giovane prete ha deciso di andarsene. Don Matteo Balzano aveva 35 anni. Lo cercavano in tanti: i ragazzi, le famiglie, i fedeli. Ma nessuno, forse, ha visto davvero cosa portava dentro. Un peso. Un silenzio. Una solitudine che ha scavato piano. E adesso resta il vuoto. E una domanda che fa male: com'è possibile che un prete, così, muoia da solo? Don Matteo è morto in silenzio. Nell’appartamento dell’oratorio, il luogo dove dormiva, lavorava, pregava. Il luogo dove nessuno ha sentito il grido. Ora piangiamo. Ma — diciamolo senza giri di parole — è tardi. Ogni volta che succede, si ripete lo stesso copione. Si prega. Si ricorda il bene fatto. Si dice “che tragedia”. E poi? Poi si va avanti. Come se nulla fosse. E invece no. Fermiamoci. E diciamoci la verità: nella Chiesa di oggi, molti preti stanno male. E troppi stanno male da soli.
Ci sono sacerdoti che si consumano nel silenzio. Che portano tutto sulle spalle: messe, bollette, catechismo, malati, burocrazia, gruppi, litigi, a volte anche più parrocchie contemporaneamente. E quando arriva la loro solitudine, quella vera, nessuno c’è. O peggio: qualcuno se ne accorge, ma gira la faccia. Don Matteo non è l’unico. È il volto concreto di tanti. Quelli che non parlano. Che reggono per anni. Che sorridono anche quando dentro si spezzano. Ma una vocazione non è fatta per stare da sola. Un prete non è nato per fare l’eroe solitario.

La Chiesa ha bisogno di vocazioni. Ma prima ancora ha bisogno di fratelli veri, di vescovi padri, di comunità che sappiano voler bene. Ha bisogno di preti che non vengano lasciati a gestire tutto da soli. E di laici che non li vedano solo come “quello che dice Messa” o come superuomini, ma come persone. Uomini. Con la loro fragilità. C’è bisogno di ascolto vero, non di riunioni. Di compagnia concreta, non di lettere pastorali. Di affetto umano, non solo spirituale. C’è bisogno, diciamolo, di una Chiesa che non abbia paura di parlare di sofferenza psicologica. Di dire che anche un prete può cadere. Può non farcela. Può avere bisogno di uno psicologo, di un amico, di un abbraccio. Don Matteo è morto in un oratorio. Un luogo che dovrebbe essere vita, gioco, festa. E invece è diventato il teatro della sua solitudine. Ma forse il suo gesto ci chiede proprio questo: di smettere, come Chiesa, di girare la faccia. Di iniziare a prenderci cura di chi ci guida. Di domandarci: quanti altri stanno così?

C’è chi ha fede e a chi non basta e crolla. C’è chi predica il Vangelo e poi torna in una casa vuota. Forse don Matteo ha cenato da solo, quella sera. Nessuna voce. Nessuno accanto. Sorella Solitudine seduta di fronte a lui. Da tempo. Questa scena, più di mille omelie, dice tutto. Dice che non bastano le parole. Servono gesti. Serve qualcuno che bussi alla porta, che dica “come stai?” senza secondi fini. Serve una Chiesa che si ricordi che dietro ogni talare c’è un uomo, un cuore, una storia. Perché Gesù, quando ha mandato i suoi, non li ha mandati da soli. Li ha mandati a due a due (Luca 10). Perché da soli, non si regge. Una vocazione, da sola, non basta. La vocazione, da sola, muore. Ma se una vocazione incontra un volto, un amico, una mano tesa, può tornare a respirare. E forse, allora, qualcosa può cambiare. Anche adesso. Anche da qui.
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Rubrica a cura di Pietro Santoro