Church pocket/69. Adamo dov’era? Il peccato del silenzio
Durante la Solennità dei Santi Apostoli Pietro, domenica scorsa, la liturgia ambrosiana ci ha proposto, nella prima lettura, il racconto del peccato originale, dal capitolo 3 del libro della Genesi. Al Santuario della Madonna del Bosco, il celebrante, all’omelia, ha posto una domanda: “Dov’era Adamo mentre Eva si lasciava convincere a mangiare il frutto dell’albero dal serpente?”. Un dettaglio minuscolo, nascosto in una frase, che cambia tutta la scena del peccato originale. Un dettaglio nel quale io non mi ero mai imbattuto. La domanda ha solleticato la curiosità teologica, quindi, ho cercato di rispondere al quesito. Genesi 3 racconta il dialogo tra il serpente ed Eva, il frutto dell’albero di cui Dio aveva comandato di non mangiare, lo sguardo, la presa, il morso. Poi si legge: “Ne diede anche a suo marito, che era con lei, e anch’egli ne mangiò” (Gen 3,6). Quella parentesi – “che era con lei” – riapre tutta la questione: dov’era Adamo mentre il serpente tentava Eva? Se era lì, perché non è intervenuto? Perché ha lasciato che le cose accadessero? Perché ha taciuto? Studiando ho compreso che non si tratta di una curiosità da detective biblico. Si tratta bensì di capire la vera natura di quel peccato e, essendo il primo peccato, del concetto stesso di peccato. Non solo un gesto – mordere un frutto – ma un atteggiamento interiore: lasciare fare, non custodire, non proteggere. E questo riguarda anche la vita quotidiana del cristiano e non solo speculazioni bibliche.
La tradizione patristica è chiara: Adamo non era lontano. Era presente, ma passivo. Sant’Ambrogio scrive che Adamo è più colpevole di Eva, perché non fu ingannato ma scelse consapevolmente. Eva ascoltò una menzogna, Adamo tacque e accettò. Sant’Agostino, nel De civitate Dei, sottolinea la debolezza dell’uomo: Adamo non fu sedotto, ma fu compiacente, forse per non perdere il legame con la donna. Ha anteposto la creatura al Creatore. Ireneo di Lione, nel Contro le eresie, pur non analizzando la scena nei dettagli, insiste sulla trasmissione della disobbedienza: Adamo ha infranto il comando consapevolmente, e da lui è iniziata la caduta. Tutti, in modi diversi, leggono la scena non come un caso isolato, ma come matrice del peccato umano: la rinuncia alla responsabilità. La storia dei padri della chiesa, contrariamente a quanto si possa pensare, da maggiore responsabilità ad Adamo piuttosto che ad Eva.

Anche la teologia successiva ha riflettuto su questo punto. Tommaso d’Aquino, nella Summa Theologiae (I-II, q. 94, a. 4), distingue le diverse posizioni dei protogenitori: Eva fu sedotta, Adamo peccò volontariamente. Questo rende la sua colpa più grave, perché non vi fu errore, ma scelta cosciente. Karl Barth, nella sua dogmatica, interpreta il peccato originale come rottura della relazione: tra Dio e l’uomo, tra l’uomo e la donna. Adamo è presente, ma non parla, non custodisce. Joseph Ratzinger, nei suoi scritti biblici, interpreta la scena come esempio di rinuncia alla vocazione ricevuta. Adamo non esercita il suo ruolo di custode del giardino, del comando divino, della relazione. Il suo silenzio è già un atto di disobbedienza passiva.
Questa linea teologica è coerente: non è solo il peccato di fare, ma anche quello di non fare. Di tacere, di voltarsi dall’altra parte, di lasciare che il male agisca senza reagire.
Il Catechismo della Chiesa Cattolica non entra nel dettaglio narrativo della scena, ma afferma esamina la questione in tre numeri. Il CCC, al 397 dice “L’uomo, tentato dal diavolo, ha lasciato spegnere nel suo cuore la fiducia verso il suo Creatore” È un atto interiore, una scelta di sfiducia, che prepara il gesto. Al CCC 389 continua dicendo: “La Chiesa insegna che tutti gli uomini sono coinvolti nel peccato di Adamo”. Non si parla del “peccato di Eva”, ma di Adamo. Infine, il n. 400 recita: “L’unione dell’uomo e della donna è soggetta a tensioni, il loro rapporto sarà segnato dalla concupiscenza e dalla tendenza al dominio”. La frattura è relazionale, e comincia proprio lì: Adamo non difende Eva, e poi la accusa.

Anche il Magistero va su questa linea. Pio XII, nell’enciclica Humani Generis (1950), dichiara che il peccato originale fu un atto storico e personale: “quel primo uomo, Adamo, che nel paradiso terrestre ha peccato gravemente contro Dio, per la sua disobbedienza”. Francesco, in Christus Vivit (2019), legge la Genesi in chiave esistenziale: il peccato è illudersi di bastare a sé stessi, di poter decidere da soli il bene e il male. Anche qui, Adamo è figura di una libertà mal gestita, una responsabilità evitata.
Oggi si parla tanto di omissioni. Di chi ha visto e non ha detto niente. Di chi sapeva e ha lasciato correre. Di chi avrebbe potuto parlare e non l’ha fatto. È il peccato di Adamo: c’era, ma ha taciuto. Nel mondo, nella Chiesa, in famiglia, nei rapporti, il male spesso non entra con la forza, ma con la disattenzione. E quando non custodiamo ciò che ci è affidato, qualcosa si rompe. Le relazioni si svuotano. La fiducia si spegne.
Il male non ha bisogno solo di complici attivi. Gli bastano testimoni muti, magari indignati in privato, ma silenziosi in pubblico. E oggi, più che mai, ci sono silenzi che fanno rumore.
L’omissione è la prima crepa nella relazione tra Dio e l’uomo, tra uomo e uomo.
E dallo stare zitti al dire: “Sono forse io il custode di mio fratello?” (Gen 4,9),
il passo è breve.
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La tradizione patristica è chiara: Adamo non era lontano. Era presente, ma passivo. Sant’Ambrogio scrive che Adamo è più colpevole di Eva, perché non fu ingannato ma scelse consapevolmente. Eva ascoltò una menzogna, Adamo tacque e accettò. Sant’Agostino, nel De civitate Dei, sottolinea la debolezza dell’uomo: Adamo non fu sedotto, ma fu compiacente, forse per non perdere il legame con la donna. Ha anteposto la creatura al Creatore. Ireneo di Lione, nel Contro le eresie, pur non analizzando la scena nei dettagli, insiste sulla trasmissione della disobbedienza: Adamo ha infranto il comando consapevolmente, e da lui è iniziata la caduta. Tutti, in modi diversi, leggono la scena non come un caso isolato, ma come matrice del peccato umano: la rinuncia alla responsabilità. La storia dei padri della chiesa, contrariamente a quanto si possa pensare, da maggiore responsabilità ad Adamo piuttosto che ad Eva.

Anche la teologia successiva ha riflettuto su questo punto. Tommaso d’Aquino, nella Summa Theologiae (I-II, q. 94, a. 4), distingue le diverse posizioni dei protogenitori: Eva fu sedotta, Adamo peccò volontariamente. Questo rende la sua colpa più grave, perché non vi fu errore, ma scelta cosciente. Karl Barth, nella sua dogmatica, interpreta il peccato originale come rottura della relazione: tra Dio e l’uomo, tra l’uomo e la donna. Adamo è presente, ma non parla, non custodisce. Joseph Ratzinger, nei suoi scritti biblici, interpreta la scena come esempio di rinuncia alla vocazione ricevuta. Adamo non esercita il suo ruolo di custode del giardino, del comando divino, della relazione. Il suo silenzio è già un atto di disobbedienza passiva.
Questa linea teologica è coerente: non è solo il peccato di fare, ma anche quello di non fare. Di tacere, di voltarsi dall’altra parte, di lasciare che il male agisca senza reagire.
Il Catechismo della Chiesa Cattolica non entra nel dettaglio narrativo della scena, ma afferma esamina la questione in tre numeri. Il CCC, al 397 dice “L’uomo, tentato dal diavolo, ha lasciato spegnere nel suo cuore la fiducia verso il suo Creatore” È un atto interiore, una scelta di sfiducia, che prepara il gesto. Al CCC 389 continua dicendo: “La Chiesa insegna che tutti gli uomini sono coinvolti nel peccato di Adamo”. Non si parla del “peccato di Eva”, ma di Adamo. Infine, il n. 400 recita: “L’unione dell’uomo e della donna è soggetta a tensioni, il loro rapporto sarà segnato dalla concupiscenza e dalla tendenza al dominio”. La frattura è relazionale, e comincia proprio lì: Adamo non difende Eva, e poi la accusa.

Anche il Magistero va su questa linea. Pio XII, nell’enciclica Humani Generis (1950), dichiara che il peccato originale fu un atto storico e personale: “quel primo uomo, Adamo, che nel paradiso terrestre ha peccato gravemente contro Dio, per la sua disobbedienza”. Francesco, in Christus Vivit (2019), legge la Genesi in chiave esistenziale: il peccato è illudersi di bastare a sé stessi, di poter decidere da soli il bene e il male. Anche qui, Adamo è figura di una libertà mal gestita, una responsabilità evitata.
Oggi si parla tanto di omissioni. Di chi ha visto e non ha detto niente. Di chi sapeva e ha lasciato correre. Di chi avrebbe potuto parlare e non l’ha fatto. È il peccato di Adamo: c’era, ma ha taciuto. Nel mondo, nella Chiesa, in famiglia, nei rapporti, il male spesso non entra con la forza, ma con la disattenzione. E quando non custodiamo ciò che ci è affidato, qualcosa si rompe. Le relazioni si svuotano. La fiducia si spegne.
Il male non ha bisogno solo di complici attivi. Gli bastano testimoni muti, magari indignati in privato, ma silenziosi in pubblico. E oggi, più che mai, ci sono silenzi che fanno rumore.
L’omissione è la prima crepa nella relazione tra Dio e l’uomo, tra uomo e uomo.
E dallo stare zitti al dire: “Sono forse io il custode di mio fratello?” (Gen 4,9),
il passo è breve.
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Rubrica a cura di Pietro Santoro