La salute dell'editoria: una giornata al salone del libro
Il Salone del Libro di Torino è uno di quegli eventi ai quali è obbligatorio partecipare senza reale utilità.
Lo si capisce dalla pletora di scrivani che pubblicizzano urbi et orbi la loro presenza (che non è, si badi bene, presenza per presentare un libro a un evento particolare: solo presenza. Sono andati, si sono fatti la loro bella foto con la copertina del loro libro esposto tra gli altri milioni, e hanno detto: «Sono ospite al Salone del Libro!»).

Lo si capisce dalla schiera di editori ed espositori presenti, marchi mai sentiti, stand improbabili, copertine disegnate da ammiocuggino. Addirittura poi, vicino alle toilette dei vari padiglioni (ditelo che l’avete fatto apposta!) sono allestiti dei “Firmacopie corner”, ovvero due tavoli con due sedie, un piccolo leggio ad ospitare la copertina del libro, e due persone solitarie sedute all’altro lato, con la penna in mano, ad attendere che qualcuno avanzi. I più furbi si sono portati le truppe cammellate dei parenti, che si mettono in fila. Da lontano li scambi per la fila per i wc, e ti allontani, dagli uni e dagli altri.
Lo si capisce dai costi. Quelli che devono sostenere gli espositori per il proprio stand, talvolta niente più che una bancarella. Quelli, altissimi, che devono sostenere i visitatori. È facile fare due conti mentre si è in treno: la tratta Milano-Torino andata e ritorno viene 25,50 Euro se si scegli il regionale veloce, non meno di 90 se si vuole viaggiare con l’alta velocità; l’ingresso alla fiera costa 22 euro (15 se si acquista preventivamente online). Non sono pochi, si dirà. Ma danno la possibilità di ascoltare qualche personaggio interessante, scrittori importanti, ospiti stranieri, in uno dei molti eventi in programma. Se si riesce a entrare, però. Perché il posto va prenotato con largo, larghissimo anticipo. Se si spendono 112 euro si conta di rimanere alla Fiera per qualche oretta. Vuoi non prendere un caffè, un panino, una bibita? Non potendoli prenotare sul web, lì i prezzi sono pieni: e altissimi. Immagino tu vada a un salone del libro per tornare a casa carico di emozioni, idee, incontri e libri. Dopo che hai speso ventidue euro per entrare ti aspetti di poter godere di qualche sconto sui prezzi di copertina. E invece no. Perché gli editori – e hanno ragione – devono in qualche modo ammortizzare le spese per la loro trasferta, l’allestimento, la pubblicità.
È tutto un grande paradosso, eppure ogni anno batte il record di presenze degli anni precedenti.

Se il polso dell’editoria italiana si dovesse misurare in base a questi numeri dovremmo dire che gode di ottima salute. E invece, come tutti sappiamo, non è così.
I dati del primo quadrimestre del 2025 confermano e aggravano la flessione del 2024 (-0,9%): il dato generale registra un decremento delle vendite del 3,6% (che vuol dire quasi un milione di libri acquistati in meno) ed è il peggiore tra i paesi europei. Soffrono di più l’online e la grande distribuzione (-40%), e questo può persino essere un bene se andasse a vantaggio delle piccole librerie indipendenti, che invece hanno chiuso in maniera inesorabile (mille in meno negli ultimi dieci anni). Sono soprattutto i piccoli e medi editori a scontare questa crisi (i grandi marchi hanno perso l’1,3%, i medi il 13,1%, i piccoli il 7,3%). Soffrono anche generi come il romance o il graphic novel, nonostante – tolto quello del Libraccio (ma si può andare a un Salone Internazionale del Libro per intrupparsi in una megabancarella di libri usati a ottimo prezzo?) – gli stand degli editori di fumetti siano di soliti i più affollati e pittoreschi.
Eppure ogni anno a Torino c’è il pienone.
Sono andato anch’io, naturalmente. È il mio lavoro, per le ragioni di cui sopra non posso non esserci. Ho presentato il mio libro, firmato copie, scattato foto, incontrato agenti editoriali, discusso di nuovi progetti, assolto tutto il rituale che un po’ mi infastidisce e un po’ mi piace.
Mentre prendevo un caffè a margine della mia presentazione ho incontrato una signora carica di borse di tela piene di libri, che era venuta ad ascoltarmi. Abbiamo chiacchierato un po’, mentre lei mi mostrava alcuni acquisti, di nomi e marchi mai sentiti: «Vengo al Salone proprio per questi», mi dice. «Quelli famosi li trovo ovunque. Ma quelli piccoli, sconosciuti, nemmeno ci sono nelle vetrine delle librerie della mia città, e li trovo solo qui».
«Ma cercava qualcosa di particolare?», le chiedo io.
«No. Se so già cosa acquistare lo trovo sul web. Ho girato a caso – a dire il vero ha usato un francesismo, scoppiando poi a ridere e quasi vergognandosene! – e mi sono lasciata attirare».
«Fa molto “L’ombra del vento” – le dico io –: “Non sei tu a scegliere un libro ma sono i libri a scegliere te”».
Avevo ancora del tempo prima del treno per il ritorno. Ho seguito il suo metodo. Ho abbandonato l’OVAL – il padiglione dove si concentrano tradizionalmente tutti i grandi marchi, dove anche io avevo fatto la mia presentazione – e mi sono lasciato inghiottire dal suq degli altri padiglioni, in un errabondare curioso e spendaccione. Avevo pur sempre beneficiato del viaggio pagato del mio editore, dell’accredito professionale gratuito e di qualche altro benefit: insomma, un piccolo tesoretto da reinvestire.

All’andata il sottopasso che dalla stazione del Lingotto conduce all’ingresso della Fiera era un arcobaleno di magliette colorate verde chiaro o azzurro cielo: classi intere di studenti in gita (anche quest’anno la Regione Piemonte ha distribuito 3.000 Buoni dal valore di 10 euro per promuovere la lettura tra le ragazze e i ragazzi dai 14 ai 22 anni domiciliati in Piemonte in visita al Salone). Al ritorno la banchina era strapiena di gente in attesa del treno. Età media molto bassa, ragazze con gonne corte, magliette cortissime, piercing, tatuaggi, trucco pesante, borse di jeans cucite a mano strabordanti di libri. Parlavano di Proust e Kerouac, di Salinger e Miller, di Gaza e di Manzoni, di politica e di pace. Un altro gruppo di gente più matura e impettita, riconoscibile dal badge professionale ancora appeso al collo – anch’io l’avevo, quasi come il distintivo di un privilegio da esibire: l’ho sfilato subito! – e lo zainetto Piquadro sulla spalla, che guardava lo smartphone. Il treno era in ritardo e i vagoni zeppi. Siamo saliti mischiati, intellettuali e “lanzichenecchi” (come li aveva definiti Elkann in un terrificante pezzo su “Repubblica” due anni fa), resi uguali dalla fretta, dall’entusiasmo, dai libri. Non quelli presentati, quelli incontrati, da cui ci è lasciati scegliere.
Lo si capisce dalla pletora di scrivani che pubblicizzano urbi et orbi la loro presenza (che non è, si badi bene, presenza per presentare un libro a un evento particolare: solo presenza. Sono andati, si sono fatti la loro bella foto con la copertina del loro libro esposto tra gli altri milioni, e hanno detto: «Sono ospite al Salone del Libro!»).

Lo si capisce dalla schiera di editori ed espositori presenti, marchi mai sentiti, stand improbabili, copertine disegnate da ammiocuggino. Addirittura poi, vicino alle toilette dei vari padiglioni (ditelo che l’avete fatto apposta!) sono allestiti dei “Firmacopie corner”, ovvero due tavoli con due sedie, un piccolo leggio ad ospitare la copertina del libro, e due persone solitarie sedute all’altro lato, con la penna in mano, ad attendere che qualcuno avanzi. I più furbi si sono portati le truppe cammellate dei parenti, che si mettono in fila. Da lontano li scambi per la fila per i wc, e ti allontani, dagli uni e dagli altri.
Lo si capisce dai costi. Quelli che devono sostenere gli espositori per il proprio stand, talvolta niente più che una bancarella. Quelli, altissimi, che devono sostenere i visitatori. È facile fare due conti mentre si è in treno: la tratta Milano-Torino andata e ritorno viene 25,50 Euro se si scegli il regionale veloce, non meno di 90 se si vuole viaggiare con l’alta velocità; l’ingresso alla fiera costa 22 euro (15 se si acquista preventivamente online). Non sono pochi, si dirà. Ma danno la possibilità di ascoltare qualche personaggio interessante, scrittori importanti, ospiti stranieri, in uno dei molti eventi in programma. Se si riesce a entrare, però. Perché il posto va prenotato con largo, larghissimo anticipo. Se si spendono 112 euro si conta di rimanere alla Fiera per qualche oretta. Vuoi non prendere un caffè, un panino, una bibita? Non potendoli prenotare sul web, lì i prezzi sono pieni: e altissimi. Immagino tu vada a un salone del libro per tornare a casa carico di emozioni, idee, incontri e libri. Dopo che hai speso ventidue euro per entrare ti aspetti di poter godere di qualche sconto sui prezzi di copertina. E invece no. Perché gli editori – e hanno ragione – devono in qualche modo ammortizzare le spese per la loro trasferta, l’allestimento, la pubblicità.
È tutto un grande paradosso, eppure ogni anno batte il record di presenze degli anni precedenti.

Se il polso dell’editoria italiana si dovesse misurare in base a questi numeri dovremmo dire che gode di ottima salute. E invece, come tutti sappiamo, non è così.
I dati del primo quadrimestre del 2025 confermano e aggravano la flessione del 2024 (-0,9%): il dato generale registra un decremento delle vendite del 3,6% (che vuol dire quasi un milione di libri acquistati in meno) ed è il peggiore tra i paesi europei. Soffrono di più l’online e la grande distribuzione (-40%), e questo può persino essere un bene se andasse a vantaggio delle piccole librerie indipendenti, che invece hanno chiuso in maniera inesorabile (mille in meno negli ultimi dieci anni). Sono soprattutto i piccoli e medi editori a scontare questa crisi (i grandi marchi hanno perso l’1,3%, i medi il 13,1%, i piccoli il 7,3%). Soffrono anche generi come il romance o il graphic novel, nonostante – tolto quello del Libraccio (ma si può andare a un Salone Internazionale del Libro per intrupparsi in una megabancarella di libri usati a ottimo prezzo?) – gli stand degli editori di fumetti siano di soliti i più affollati e pittoreschi.
Eppure ogni anno a Torino c’è il pienone.
Sono andato anch’io, naturalmente. È il mio lavoro, per le ragioni di cui sopra non posso non esserci. Ho presentato il mio libro, firmato copie, scattato foto, incontrato agenti editoriali, discusso di nuovi progetti, assolto tutto il rituale che un po’ mi infastidisce e un po’ mi piace.
Mentre prendevo un caffè a margine della mia presentazione ho incontrato una signora carica di borse di tela piene di libri, che era venuta ad ascoltarmi. Abbiamo chiacchierato un po’, mentre lei mi mostrava alcuni acquisti, di nomi e marchi mai sentiti: «Vengo al Salone proprio per questi», mi dice. «Quelli famosi li trovo ovunque. Ma quelli piccoli, sconosciuti, nemmeno ci sono nelle vetrine delle librerie della mia città, e li trovo solo qui».
«Ma cercava qualcosa di particolare?», le chiedo io.
«No. Se so già cosa acquistare lo trovo sul web. Ho girato a caso – a dire il vero ha usato un francesismo, scoppiando poi a ridere e quasi vergognandosene! – e mi sono lasciata attirare».
«Fa molto “L’ombra del vento” – le dico io –: “Non sei tu a scegliere un libro ma sono i libri a scegliere te”».
Avevo ancora del tempo prima del treno per il ritorno. Ho seguito il suo metodo. Ho abbandonato l’OVAL – il padiglione dove si concentrano tradizionalmente tutti i grandi marchi, dove anche io avevo fatto la mia presentazione – e mi sono lasciato inghiottire dal suq degli altri padiglioni, in un errabondare curioso e spendaccione. Avevo pur sempre beneficiato del viaggio pagato del mio editore, dell’accredito professionale gratuito e di qualche altro benefit: insomma, un piccolo tesoretto da reinvestire.

All’andata il sottopasso che dalla stazione del Lingotto conduce all’ingresso della Fiera era un arcobaleno di magliette colorate verde chiaro o azzurro cielo: classi intere di studenti in gita (anche quest’anno la Regione Piemonte ha distribuito 3.000 Buoni dal valore di 10 euro per promuovere la lettura tra le ragazze e i ragazzi dai 14 ai 22 anni domiciliati in Piemonte in visita al Salone). Al ritorno la banchina era strapiena di gente in attesa del treno. Età media molto bassa, ragazze con gonne corte, magliette cortissime, piercing, tatuaggi, trucco pesante, borse di jeans cucite a mano strabordanti di libri. Parlavano di Proust e Kerouac, di Salinger e Miller, di Gaza e di Manzoni, di politica e di pace. Un altro gruppo di gente più matura e impettita, riconoscibile dal badge professionale ancora appeso al collo – anch’io l’avevo, quasi come il distintivo di un privilegio da esibire: l’ho sfilato subito! – e lo zainetto Piquadro sulla spalla, che guardava lo smartphone. Il treno era in ritardo e i vagoni zeppi. Siamo saliti mischiati, intellettuali e “lanzichenecchi” (come li aveva definiti Elkann in un terrificante pezzo su “Repubblica” due anni fa), resi uguali dalla fretta, dall’entusiasmo, dai libri. Non quelli presentati, quelli incontrati, da cui ci è lasciati scegliere.
Stefano Motta