Italiani popolo di Dantisti. Ma serve davvero far leggere Dante alla scuola media?

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La bizzarra idea di un docente di una scuola media di Treviso che ha ritenuto di dover chiedere alle famiglie l’avallo per leggere in classe alcune pagine della Commedia dantesca sarebbe poca cosa (il docente maturerà, si spera), se non avesse poi dato la stura a tutti i dantisti in quiescenza, di cui l’Italia è piena. Ogniqualvolta si presenti un argomento topico nella discussione noi italiani siamo, in verità, esperti dell’intero scibile: popolo di santi, poeti, navigatori, allenatori della Nazionale, virologi, meteorologi, pedagogisti soprattutto.

Da docente e da scrittore vorrei che la questione fosse affrontata per il verso giusto. Che non è la presunta censura nei confronti dell’opera di Dante, né la sua ammirazione per gli intellettuali arabi – come ha dichiarato Ferroni – (quindi i musulmani non dovrebbero sentirsi offesi da letture dantesche), o l’eliminazione di Dante dalle scuole italiane – come è stato attribuito a Marazzini.

La questione non è se le pagine della Commedia possano in qualche modo offendere la sensibilità di studenti di religione musulmana più di quanto non lo possano fare alcune novelle di Boccaccio, che pare sia stato loro consigliato di leggere in sostituzione. La questione è se serva leggere Dante alla scuola media.

Sfido chiunque degli apologeti di Dante a trovare in quale passaggio delle Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo d’istruzione, in quale voce degli «Obiettivi di apprendimento» o dei «Traguardi per lo sviluppo delle competenze al termine della scuola secondaria di primo grado» compaia l’espresso consiglio di leggere passi della Commedia alla scuola media.

Perché a me non risulta.

La domanda corretta da porre al docente di Treviso e a tutti i colleghi non è se Dante vada espunto o epurato per non offendere sensibilità diverse, ma quali siano piuttosto le ragioni per le quali si ritiene di far leggere terzine di endecasillabi nel volgare fiorentino del Trecento a studenti di dodici anni. Quali obiettivi formativi si intendono perseguire attraverso questi passi che non possano utilmente e forse persino meglio essere raggiunti anche con altri testi? Lo stimolo alla lettura personale? Informazioni sulla cosmologia aristotelica? Nozioni di astrologia e cabalistica? Elementi di teologia ed escatologia? Spunti di politica locale, nazionale e sovranazionale?

O forse leggiamo brani scelti (quali poi? Sempre lo stesso florilegio di Caronte, Paolo e Francesca, Ulisse e Ugolino?) come fossero una bella storia d’avventura? Se così è, allora tanto varrebbe leggere Viaggio al centro della Terra di Jules Verne.

Perché far leggere Dante alla scuola media?

Tutti i nostri studenti avranno occasione di affrontarlo alle superiori, con strumenti linguistici e culturali adatti, e con una maturata sensibilità personale, e non lo sprecheranno – come invece troppo spesso vedo fare – anticipando (e perciò bamboleggiando) la lettura della Commedia e di altri capolavori.

Non la pensavo così qualche anno fa, quando ero un giovane docente e un ancor più giovane autore, e molti miei libri per le scuole erano improntati esattamente a questa visione: sminuzzare i classici per i giovani lettori. Ci ho vissuto e per certi versi ci vivo ancora: la mia riscrittura romanzata della Commedia è alla sua dodicesima ristampa. Ma non posso non rendermi conto che la nostra società è cambiata a un ritmo che la scuola fatica a sostenere, arrancando in cerca di palliativi o arroccandosi a certezze secolari. In un mondo profondamente secolarizzato, non più naturaliter cristiano, con paradigmi culturali mutati, con classi multietniche, multireligiose e plurilingue, io oggi non leggerei la Commedia alla scuola media (ma nemmeno I promessi sposi). Senza fare distinzioni tra studenti cristiani e studenti musulmani. A meno di non glossare continuamente la lettura, spiegando ora questo ora quel riferimento religioso, e poi quell’allegoria, e quel termine desueto, e quella tale bega politica fiorentina per cui quell’anima parte con un’intemerata, poi chi era chi e perché Dante lo mette lì. Che è la via più sicura per uccidere un’opera letteraria, con palafitte di note a piè pagina, puntelli di sostegno e metadiscorsi, che piacciono – forse – ai docenti, ma sono una pena per gli studenti. Insomma, non starei leggendo Dante: starei parlando di Dante. Invece che far arrivare agli studenti la voce di Dante, li intontisco con la mia.
Stefano Motta
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