Mediterraneo, dieta e cimitero. In carcere si continua a morire

Certo. Nella settimana di ferragosto tutti sono predisposti a gustarsi le giornate estive evitando letture fastidiose, articoli di giornali impegnativi, a gustare le vacanze, il mare, gli aperitivi, le passeggiate, i bagni à gogo, il fresco della montagna: il Parlamento è chiuso e il Governo riposa.

Il ferragosto è proprio populista, egualitario, permissivo, trasgressivo, è utile all’economia, al turismo, alla cultura di massa, alla piadina, alla pizza, fa bene anche alla pesca, alla frutta, alla dieta mediterranea. Peccato che nel Mediterraneo affoghino migliaia di migranti che scappano dalle coste della vicina Tunisia che, secondo gli accordi dell’attuale governo, dovrebbe ‘disciplinare’ il transito.
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Peccato che anche nelle carceri continuino a suicidarsi. Le carceri sono una mostruosità istituzionale, sono strutture maledettamente incivili: vecchie, sozze, putride. Eppure la funzione di questi luoghi è rieducativa, com’è prevista dalla legge Gozzini n. 663, introdotta il 10 ottobre 1986, che si caratterizza per la individualizzazione del trattamento, la valorizzazione della prospettiva di recupero, reinserimento e introduce i permessi premio e la detenzione domiciliare, ma per essere attuativa e applicabile necessita anche di strutture carcerarie moderne e abitabili. Buona parte degli istituti è impreparata a rispondere ai nuovi bisogni degli ospiti: mancano spazi e personale specializzato. Ci sono, ma sono troppo poche le strutture preposte a svolgere questa funzione di recupero.

I media tendono a mostrare strutture accettabili oppure ne parlano quando accadono fatti sgradevoli, invece la condizione di vita dentro il carcere è precaria sia per gli ospiti sia per gli operatori: polizia penitenziaria, operatori sociosanitari, educatori e altri.

Il contesto non è favorevole e ne discende una qualità di vita, di clima emozionale, relazionale frustrante, depersonalizzante. E’ dentro questo contenitore depressogeno che si consumano suicidi degli ospiti e degli operatori. Un ambiente non sano non può che produrre dei vissuti, delle condizioni a rischio per la salute mentale.

Basta trascorre all’interno di un carcere qualche giorno in un ambulatorio sanitario per constatare che non sono solo gli ospiti a richiedere psicofarmaci ma anche gli operatori. Non ci sono distinguo.

C’è una certa assonanza tra la situazione attuale delle carceri e quella narrata da Anton Céchov nell’indagine epidemiologica, sociologica del 1890 su L’isola di Sachalin (Sachalin si trova a nord del Giappone).

Anton Céchov, come medico, compilò circa diecimila rapporti parlando con i detenuti e i loro familiari, ne rimase disgustato dai carcerieri, inorridito dal trattamento riservato ai prigionieri e dal tipo di punizioni loro inflitte. E’ una fotografia spietata, analitica della condizione disumana. Il 17 dicembre dello stesso anno scrisse: «O il viaggio mi ha maturato o io sono impazzito».

Con tutti i distinguo del caso, anche nelle attuali carceri (istituti di custodia cautelare, istituti per l’esecuzione delle pene, istituti per l’esecuzione delle misure di sicurezza, centri di osservazione) si riscontra quotidianamente: disperazione, solitudine, anomia, depersonalizzazione, frustrazione, derealizzazione, perdita della concezione del tempo, vissuto abbandonico, desiderio di morte, di autolesionismo.

Le attuali carceri sono prevalentemente sacche contenitive del disagio sociale e della marginalizzazione. Una società civile ha bisogno di luoghi di recupero sani, efficienti: vanno incrementate le pene alternative.
Dr. Enrico Magni
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