Retesalute: finalmente la Giustizia ha fatto chiarezza su chi porta effettive responsabilità nel dissesto finanziario

La sentenza del Giudice del Lavoro, la dottoressa Federica Trovò, pesa come un macigno sulla politica locale. In un colpo solo sono state rigettate le tesi mosse dall’allora Collegio dei liquidatori di Retesalute, è stata emessa condanna nei confronti dell’azienda speciale a rifondere le spese del giudizio, e soprattutto è stata riconosciuta la responsabilità dell’assemblea dei soci, dunque dei sindaci. I primi cittadini non potevano non sapere.

Lo scrive in maniera cristallina il Giudice nella sentenza: “Emerge poi che la situazione di crisi finanziaria dell’azienda fosse ben nota ai soci”. A questo proposito viene citata l’Assemblea dei soci dell’8 ottobre 2018 e il Piano di Rilancio Aziendale presentato in quella sede. Vengono perciò riportati gli interventi dei sindaci o loro delegati: Laura Pozzi (allora assessore di Missaglia), Maurizio Maggioni (assessore di Olgiate Molgora), Stefano Motta (sindaco di Calco), Davide Maggioni (allora sindaco del di Sirtori). Per il CdA vengono sintetizzate le dichiarazioni di Alessandro Salvioni (allora presidente) ed Emilio Zanmarchi (allora consigliere). Tutti che, pur con sfumature diverse, riconoscevano i problemi finanziari per la sottocapitalizzazione o per la fornitura di servizi a sotto costo. Non di meno conto la relazione della Guardia di Finanza che corrobora questa tesi.

Il ragionamento di attribuire le responsabilità delle perdite di bilancio soltanto a Simona Milani (già direttore generale dell’azienda) e ad Anna Ronchi (già responsabile dell’area amministrativa) mosso dal Collegio dei liquidatori, rappresentato dagli avvocati Yvonne Messi e Fabio Franchina, viene bollato come “semplicistico”. E invece viene rimarcato che “la circostanza che i Comuni fossero consapevoli della sottocapitalizzazione dell’Azienda e dell’inadeguatezza delle tariffe implica che il danno non si sia prodotto a causa delle condotte ascritte alle odierne convenute, ma quale conseguenza delle scelte gestorie, come assunte per volontà dei soci stessi”. E se ne erano a conoscenza coloro i quali hanno il potere di determinare le tariffe, cioè i soci, “avrebbero dovuto assumere le iniziative di competenza e ciò indipendentemente dal fatto che essi conoscessero le perdite di bilancio e/o le supposte falsità commesse nella redazione dello stesso. Vale a dire che, ove gli organi direzionali fossero stati a conoscenza che i costi dei servizi non erano adeguati, essi stessi avrebbero dovuto ovviare a tale inadeguatezza, sicché è la loro condotta omissiva che si pone come causa diretta delle perdite, mentre le condotte imputate alle convenute ne avrebbero semmai determinato l’occultamento”.

Queste frasi dovrebbero bastare per scoperchiare l’ipocrisia della classe dirigente locale, che non si è assunta le proprie responsabilità né prima che uscisse il bubbone, ovvero pagando per quanto dovuto – e nei tempi consoni – i servizi erogati da Retesalute, né successivamente con un ripiano delle perdite lineare, senza gli escamotage della contraddittoria – quanto costosa – procedura di liquidazione con ritorno in bonis. Un atteggiamento vigliacco, che alla luce del pronunciamento del tribunale risuona in modo ancora più fragoroso. I gruppi di minoranza, almeno in quei Comuni in cui non vi è stato un cambio di colore politico negli ultimi anni, dovrebbero pretendere risposte e far sentire la voce dell’indignazione. Ma dovrebbero conoscere almeno per sommi capi la materia di cui si sta parlando, cosa da non dare assolutamente per scontato.

Il Collegio dei liquidatori (nell’anno in cui è stato in carica) e i legali che su suo mandato stanno ancora agendo non sono ancora riusciti a provare il danno dalle condotte eventualmente assunte da Ronchi e Milani, nonostante già in una fase precedente il Giudice avesse fatto presente quanto fondamentale fosse la dimostrazione dell’accusa mossa. Il che, memori di certe dichiarazioni in pompa magna, rende ancora più disarmante il quadro generale. In assenza di prove, il Giudice si è vista costretta a non prendere nemmeno in considerazione la sussistenza delle condotte ritenute improprie. Ricordiamo anche il ritornello dei 25 mila euro distratti come se questo episodio fosse la panacea di tutti i mali. Ora il Giudice dice però che tale operazione “per quanto inconsueta, non risulta avere causato alcuna perdita in concreto e che, anzi, sarebbe servita unicamente per consentire il pagamento della totalità degli stipendi, in un momento in cui di mancanza di liquidità dell’Azienda”.

Il sospetto che il Collegio dei Liquidatori nominato dai Comuni abbia cercato due capri espiatori è ormai sigillato dalla sentenza del Giudice. Che non lo esprime con un modo di dire prosaico come ci concediamo noi giornalisti. Lo ha scritto con tono severo: “L’avere intrapreso l’azione soltanto nei confronti delle odierne convenute - nonostante che le condotte individuate come pregiudizievoli implicassero il coinvolgimento di diversi altri soggetti (nella specie: i membri del cda fino al 2019, il revisore legale pro tempore, il consulente esterno, i componenti dell’o.d.v., tutti effettivamente destinatari di una diffida di RETESALUTE, della cui esistenza si apprende dalla citata relazione della Guardia di Finanza) - e senza che tale “selezione” dei soggetti convenuti sia in alcun modo motivata dalla parte ricorrente, integra una condotta che appare contraria alle regole generali di correttezza e buona fede, che devono invece presidiare l’uso dello strumento processuale”. Parole lapidarie.
Marco Pessina
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