Nella Milano da bere Tangentopoli è stata una stagione di forti contrasti di contraddizioni e mutazioni


Sono passate tre generazioni da quel mese di febbraio del 1992. Per riprendere il filo di quella storia è necessario recuperare le pagine accartocciate dei giornali sepolti in un cassetto e conservate con maniacalità dall’usura inesorabile del tempo. Dopo aver stirato, con il palmo della mano quei fogli, che puzzano ancora di nafta, le prime cose che compaiono sono le foto di tre giovani arzilli e vogliosi magistrati: Di Pietro, Colombo, Davigo.

Erano così lontani dai volti oscuri, contorti dei soliti magistrati, davano l’impressione di fresco, pulito, nuovo, non erano ingessati, chiusi a riccio nella mortificante toga. Anche loro rispondevano allo slogan in voga negli anno ottanta della ‘Milano da bere’. Era uno slogan necessario per una narrazione che cancellasse il decennio precedente Anni di piombo.

Ma dietro a quella rappresentazione di leggerezza, di ‘tutto va bene, Madama la marchesa’, il sistema politico (pentapartito) era ingabbiato, si autoriproduceva in sinergia con un apparato statuale invischiato con una classe imprenditoriale dipendente dalla politica. La narrazione doveva rispecchiare un immaginario godereccio e ‘Così fan tutte’. La ruota girava su se stessa.

Il giocattolo si rompe quando, per caso e per necessità, il pignone di un ingranaggio, come quelli dei vecchi orologi, si rompe e l’orologiaio di turno (Di Pietro) scopre che la cremagliera è difettosa. E’ bastato un banale difetto perché si generasse un fenomeno entropico che facesse saltare il sistema.

Tutto quello che succede, è solo la conseguenza entropica del disordine creatosi. Si passa in pochi giorni dalla ‘Milano da bere’ alla Milano del mariuolo e a Tangentopoli. Si apre un’altra stagione della Repubblica. Nell’arco di un anno il sistema politico-economico-affaristico si scardina e genera uno scenario, che interagendo con fenomeni internazionali complessi si scontra con la globalizzazione e con il crollo delle ideologie del novecento. Tangentopoli è parte di questo processo storico. Tanto che, sul piano sociale si assiste alla caduta dei partiti e all’apparire di nuovi fenomeni.

Il primo è il populismo di piazza. La piazza depersonalizzata affida ai magistrati un ruolo che va oltre alla funzione giudicante. Il populismo si manifesta in modo irruento con la scena delegittimante, quando Craxi (segretario Psi), all’uscita dell’hotel Raphael, è bersagliato da monetine, oppure quando Forlani (segretario DC) con la bava alla bocca è ripreso dalle telecamere, mentre risponde nel processo alle accuse e l’evento è amplificato dai media.

Il secondo è quando i partiti incominciano da fiumi a diventare affluenti, torrenti e poi ruscelli. E’ la polverizzazione dei partiti, del consenso ed è, dopo trent’anni, un fenomeno attuale delle società avanzate.

Il terzo è l’avanzata dello streaming. I processi vengono visti direttamente e tutti i cittadini possono assistere alla commedia del disfacimento. Questo streaming primitivo, ancora sceneggiato in tv, preannuncia  l’ipermediaticità, lo smartphone, il network insieme all’altro strumento innovativo del computer, di internet e del web.

Gli stessi attori saranno sottoposti a uno stress che li porterà a lasciare la magistratura. Di Pietro inventa un partito, fa il politico; però, le attese non corrispondono ai risultati, ma non è un caso che inizia a prendere forma un nuovo movimento postideologico, molto valoriale come 5Stelle. E’ un movimento che nasce dalle ceneri di Tangentopoli. E’ un movimento populista che nega il sistema: lo vuole sradicare e aprirlo come una scatoletta di tonno. L’altro magistrato lascia la toga e si pone come testimone di una cultura della responsabilità.

Mutatis mutandi il sistema continua a rigenerarsi a riprodurre, pur nei cambiamenti storici, determinati vizi antropologici. Tangentopoli è stata una stagione di forti contrasti, contraddizioni e mutazioni.
Dr. Enrico Magni, Psicologo
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