75.190 il numero tatuato sul braccio sinistro, 202 la cella di San Vittore che è stata l’ultimo “focolare” con il papà, 40 i giorni trascorsi in 3 carceri italiane, 13 l’età di ingresso ad Auschwitz, 605 i componenti la carovana verso i campi della morte solo 20 i sopravvissuti e 585 gli scomparsi. La vita di Liliana Segre, ebrea sopravvissuta ai campi di sterminio, è costellata di numeri: alcuni evocanti la liberazione, come quella dell’aprile del 1945 quando si aprirono i cancelli dell’ultimo campo in cui era internata e poté respirare la primavera da ragazzina libera, altri impregnati di morte e di dolore. Ma nessuno di questi numeri Liliana ha mai voluto cancellare dalla sua mente e nemmeno dalla sua pelle. Come quel tatuaggio, 75.190, che per più di un anno ha sostituito il suo nome, scandito nella fredda e truce cadenza tedesca. “Non mi toglierò mail il numero che ho tatuato dal 1943 sul braccio sinistro” ha spiegato alla platea di studenti dell’istituto Viganò di Merate “perché quel numero è il monumento alla vergogna di chi ha fatto tutto ciò”. Una mattinata intensa, emozionante, commovente come l’ha definita il preside prof. Lorenzo Pelamatti che con la professoressa Lucilla Barassi, che ha accompagnato un gruppo di studenti sul treno della memoria, ha voluto regalare ai giovani una testimonianza che sarà per la vita. Giunta da Milano, Liliana Segre è salita in cattedra nell’aula magna dei due istituti, abituata, suo malgrado, a questa che per lei è diventata una “missione”. Ottant’anni portati meravigliosamente, una mente lucida e frizzante che porta sulle labbra, con scioltezza, i ricordi della parentesi più drammatica della sua vita, capelli chiari, un volto con poche rughe e piccoli occhi quasi nascosti dagli zigomi. Liliana Segre è apparsa molto diversa da quella ragazzina fragile e “impacciata”, come si è descritta, che sembrava quasi stupida e dimessa durante la sua permanenza del campo, vittima tra le vittime. Tanto decisa e forte da non essersi fatta scrupoli a chiedere a tre ragazzi di lasciare l’aula magna per via del loro comportamento irrispettoso e irriguardevole verso la testimonianza che stava riportando.
Dopo aver ripercorso con dovizia di date e aneddoti, come quello dei prigionieri di San Vittore che, mentre vedevano gli ebrei attraversare il cortile per essere caricati sui carri diretti a una destinazione ignota, mostravano loro solidarietà e affetto, Liliana Segre si è soffermata a raccontare la “giornata” nel lager. Dal risveglio, fatto di un’adunata veloce e tempestiva, passando per il pranzo consistente in una brodaglia da bere, senza cucchiaio, in una scodella per 4-5 persone, fino alla marcia ai lavori forzati per giungere a sera quando, per cena, ad attenderli c’erano un ricciolo di margarina e una salsiccia orribile “di cui era meglio non sapere di cosa fosse fatta”.
VIDEO:
Sopravvissuta per caso, con l’unica colpa di essere nata ebrea. Un caso che si è ripetuto più volte come un refrain in quei mesi di deportazione e privazioni che l’hanno portata a ripetersi continuamente, mentre era in fila per la visita dal dottor Mengele, “voglio vivere, voglio vivere, voglio vivere” e a ricordare oggi, con vergogna, di non essersi girata quando la sua compagna di lavoro, reduce da un incidente al telaio che le aveva amputato due falangi, era stata scartata dalla selezione e destinata tra coloro che erano destinati al gas. “Ora parlo anche in nome di Janine, la mia compagnia di lavoro, che quel giorno mentre io davanti a lei venivo ancora giudicata abile al lavoro veniva scartata per le due falangi amputate. Quel viso che non sono riuscita a guardare per l’ultimo istante, non voltandomi indietro, ora lo porto a voi per ricordare nel suo nome quanto è accaduto”.
Liliana Segre con il preside prof. Lorenzo Pelamatti
Adolescente catapultata nel mondo dei grandi, i più truci e spregiudicati, privata della sua innocenza, spogliata con violenza davanti alle risate delle guardie, trapassata da sguardi di mostri e non più di uomini, Liliana Segre non si guardava mai attorno. Si era imposta di tirare sempre dritto, di non voltarsi e di non chiedere nulla, di non interessarsi di come si chiamassero i carnefici e di volare via con la mente, sopra il filo spinato, alla ricerca della vita.
“Tutti scegliemmo la vita” ha proseguito “pochissimi furono i suicidi nei lager. Perché il valore della vita si sente tantissimo quando ti sfiora la morte. E solo da nonna, ricordandomi dei ragazzi della gioventù hitleriana, ho capito che sono stata io più fortunata di loro ad essere vittima e non carnefice. Noi uomini siamo fortissimi perché siamo in grado di trasformare la marcia della morte a cui ci sottoponevano in una marcia per la sopravvivenza. Nella vita, ricordatevi ragazzi, non si può delegare, ognuno deve fare la sua parte. Io non ero il mio assassino: il giorno della liberazione avevo accanto a me il mio guardiano verso cui provavo un profondo sentimento di odio e vendetta. Aveva gettato a terra la pistola, ai miei piedi. Mi ero detta che il giusto epilogo sarebbe stato afferrare l’arma e ucciderlo. Però non l’ho fatto. Perché io non ero come il mio assassino, io avevo scelto la vita e quando si sceglie la vita non si può uccidere qualcuno. Ecco quel giorno in cui non ho raccolto la pistola ho capito che ero diventata quella donna libera e di pace che sono tuttora”. E un lungo, caloroso e commosso applauso, ha salutato la testimonianza di questa “nonna” che, con il suo racconto, ha lasciato un solco profondo nella mattinata primaverile e spensierata di oltre 200 studenti.