Giovanni Liguori di Pax Christi, il dr. Carlo Cecchetti e Federico Brigatti neo presidente dell’azione cattolica Merate
"Che cosa vi ho fatto?". Sono state le ultime parole del giudice Rosario Angelo Livatino poco prima che i suoi assassini con due colpi alla testa (uno in centro alla fronte, l'altro tra il naso e la bocca), lo freddassero mentre tentava disperatamente di mettersi in salvo dall'agguato. La Chiesa ha aperto per lui il processo di beatificazione, ritenendo il suo impegno nel lavoro, la sua dedizione alla causa della giustizia e il suo sacrificio fino alla morte, un esempio da seguire e da venerare.
A tratteggiare, con parole cariche di rispetto e stima, la sua figura è stato il giudice Carlo Cecchetti, in servizio presso il tribunale di Como e, fino a qualche anno fa, giudice del lavoro a Lecco. L'incontro, promosso dall'azione cattolica di Merate in occasione della giornata ad essa dedicata, con il sostegno di Pax Christi e della comunità di Via Gaggio, si è svolto nell'aula Paolo VI di Palazzo Prinetti e ha visto la partecipazione di un buon numero di persone.
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Nato a Canicattì nel 1952, figlio unico, dedito allo studio, fin da bambino aveva mostrato una grande attitudine all'apprendimento e al ragionamento, simbolo di "quel livello di scuola pubblica e anche terrona" che ha dato grandi personaggi all'Italia. A ricordarlo con affetto in alcune lettere i suoi professori di liceo cui Livatino aveva scritto con riconoscenza e gratitudine per "averci insegnato a ragionare, averci trasmesso la capacità critica e autocritica nonché il desiderio di superare le differenze"."Il giudice Livatino" ha commentato il dr. Cecchetti "era di un'onestà che ha voluto separare il bene dal male; i magistrati onesti da quelli disonesti".
Ogni mattina, prima di varcare le soglie della Procura, si fermava in una chiesa poco distante e, in silenzio, in un angolo quasi nascosto si affidava a quel Dio che fin da bambino gli avevano indicato come Colui nel quale riporre fiducia. Nessuno si era mai accorto che quel piccolo uomo, con la valigetta sottobraccio, vestito elegantemente e che, puntuale, ogni mattina sostava in fondo alla navata principale, era un giudice impegnato in prima linea a combattere la criminalità. Nemmeno il prete lo conosceva: solamente quando sui giornali comparve la foto e l'articolo del suo assassinio, scoprì il nome di quel parrocchiano tanto devoto e metodico.
Il giudice Carlo Cecchetti
Sui suoi quaderni, una sigla aveva tormentato gli investigatori per diverse settimane: STD. In realtà le tre lettere stavano per "sub tutela Dei", come a significare che ogni cosa che facesse e appuntasse su quel quaderno di lavoro era affidato all'ala paterna di Dio. "Non voglio tracciare un ritratto di Rosario Livatino come di un santino" ha spiegato il dr. Cecchetti "ma di una persona dai profondi tratti umani, che metteva se stesso all'ultimo posto perché solo così era in grado di amministrare la giustizia con occhio libero. Aveva rinunciato alla scorta perché riteneva che fosse inutile mettere a repentaglio la vita anche dei suoi poliziotti. Con loro, infatti, aveva avuto modo di condividere le piccole cose dell'esistenza come un pranzo in compagnia tra una pausa di lavoro e l'altra. La fede in Livatino si esprimeva attraverso l'impegno nel lavoro e la dedizione alla giustizia che l'hanno portato fino al martirio laico". Per il bene della sua imparzialità non frequentava i "salotti" della Agrigento bene di allora, faceva una vita ritirata, la sua dedizione alla Giustizia passava attraverso l'estremo sacrificio della vita privata. Un sacrificio arrivato fino alla morte.