
(laceyterrel.com)
Ho conosciuto un uomo che colleziona pagine di giornale. In casa quando aprono un quotidiano o una rivista e vedono che la numerazione delle pagine salta capiscono che lui è già passato di li. Talvolta il taglio è perfetto, altre volte pare affrettato perché rimane traccia dello strappo. L'uomo è solito ripiegare la pagina in quattro, premerla dolcemente e porla sul ripiano di una madia della cucina a prendere aria. Quando le pagine hanno formato un bel mazzetto le trasferisce in un cassetto bianco che si trova in un'altra stanza e le chiude a chiave. Gli ho chiesto con delicatezza perché lo fa, quale il motivo di un'abitudine atipica che sa di polvere. Mi ha risposto, non senza esitare, che è il suo modo di conservare la memoria in un mondo che brucia immagini e parole prima ancora che vista e udito ne abbiano colto e raccolto il significato. La carta è fragile, ma sincera - mi dice - raccoglie le parole come fa la spugna con l'acqua, le mantiene e le conserva intatte. Basta una stilla di sudore o una goccia di sangue a piegare il foglio, che però reagisce e l'assorbe, come fa l'essere umano con la fatica. Siamo tutti di carta mi sussurra prima di volgere lo sguardo altrove. L'uomo è di poche parole. Non è più giovane. Deve averne consumate tante, certo anche senza profitto. Chissà se è per questo motivo che fa precedere sempre la parola da un sorriso tenue e accogliente, ma appena accennato quasi a non volerlo sciupare. Poi arriccia le labbra ed alza le spalle come a dire: sono fatto così, che male c'è? Gli ho chiesto di farmi vedere una raccolta delle sue pagine e mi ha portato in una stanza chiusa a chiave che odora dell'inchiostro di stampa con le gialle pareti solcate dalle strie del sudore di tante dita che hanno battuto su vecchi tasti e recenti tastiere. Mi ha aperto uno dei tanti cassetti bianchi e le pagine sono spuntate come asciugamani freschi di un bucato dimenticato. Quando gli armadi sono colmi - mi ha detto - appoggio i mazzi per terra lungo le pareti libere dal mobilio. E' come sentirsi dentro una trincea con pile di pagine di giornale al posto dei sacchi di sabbia, rannicchiati in difesa, al riparo di una barriera di carta che raccoglie e cataloga tutte le fragilità del mondo. Le ho scorse quelle pagine, le ho odorate mentre l'uomo si ritraeva di qualche passo, respinto all'indietro da un misto di riservatezza e imbarazzo. Ma non ve ne era motivo. Tra le mie dita, ho avuto la sensazione che quelle pagine asciutte, rugose, molte ingiallite dal tempo, ricominciassero a parlare. Un vocìo sommesso, sovrapposto, il silenzioso bisbiglio sonoro di milioni di parole di carta pressate, che si strattonavano per catturare un attimo di attenzione e di luce perchè anche l'inchiostro ha bisogno di respirare l'aria degli sguardi. E d'incanto tra le mie dita hanno cominciato a scorrere pagine che raccontano di una città o di una strada, pagine con le ultime parole sagge di un vecchio poeta, pagine di resoconti di guerra o di delitti passionali, pagine di promesse politiche non mantenute e pagine di eventi sportivi unici la cui lettura ancora emoziona. Ho visto pagine con grandi fotografie in bianco e nero, volti di uomini e donne fissati in un attimo statico che nessuna immagine in movimento può superare. Le mie dita hanno accarezzato titoli di risoluti editoriali di prima pagina e di prestigiosi elzeviri di terza, di critica letteraria, teatrale e cinematografica firmati da nomi che inducono i pochi che ne hanno ancora memoria alla riverenza. Ho toccato con le dita titoli di coccodrilli scritti in morte di personaggi famosi e frettolosi necrologi di gente la cui notorietà è durata una sola sera. Mi sono voltato per fargli con le mani il gesto della sorpresa e dell'incanto, ma l'uomo era uscito dalla stanza senza che me ne accorgessi. In quell' istante mi sono reso conto del silenzio nel quale ero avvolto da molti minuti, rotto solo di tanto in tanto dal soffocato gracidio delle pagine di giornale svolte. Allora mi sono fermato, consapevole di avere violato un luogo avvolto in un'aurea di mistero e mi sono sentito in colpa per avere abusato della possibilità di fare un viaggio in punta di piedi a ritroso nel tempo, inaspettato si, ma per compiere il quale avevo staccato un biglietto al quale non ero certo di avere diritto. Mi sentivo estimatore, non autore. Testimone, non protagonista. Una sorta di intruso, fragile come tutta la carta di cui ero circondato. Ho rimesso in perfetto ordine le pagine di giornale e chiuso il cassetto che le conteneva. Ho dato un ultimo sguardo alla stanza, dal soffitto, alle pareti, al pavimento grezzo, poi ho chiuso la porta alle mie spalle e quando ho girato la chiave nella toppa è stato come lasciare un approdo sicuro.
L'uomo mi aspettava seduto al grande tavolo della cucina con accanto due tazze di fumante caffè. Pareva avesse calcolato i tempi del mio ritorno. Alzò la testa e mi regalò un imbronciato sorriso. Accanto al vasetto dello zucchero c'era una pagina di giornale tagliata di fresco. Una sfogliatella appena sfornata, pensai.
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