Scritto Giovedì 21 gennaio 2021 alle 13:53
Naufragare non m'è dolce in un mare di cemento: Marasche e altre oscenità
Caro direttore,
credo sia sbagliato ricondurre la vicenda del centro commerciale delle Marasche ad una banale questione di paese. Anche perché tanti degli amministratori che oggi si strappano le vesti - a cominciare da quelli della mia Merate - non sono certamente il miglior pulpito sul quale issarsi a fare prediche, visto che la città è stata ridotta ad un enorme centro commerciale in servizio permanente.
No, quella del centro commerciale di Osnago è un manifesto - l'ennesimo - di una scellerata politica urbanistica ma, ancora prima, di un approccio culturale che fa a pugni con chi vorrebbe che gli amministratori pensassero al futuro dei loro cittadini piuttosto che al loro presente. Anche a costo di perdere l'amata poltrona con la quale - a differenza del passato - vivono e sopravvivono, anziché sedervisi soltanto per rendere (gratuitamente) un servizio al paese.
Trovo stucchevole discutere se la rotonda è piccola (certo che è piccola, non bisogna mica essere urbanisti per capirlo), se ci sarà un ulteriore aumento di traffico (la scoperta dell'acqua calda, altrimenti le attività chiuderebbero subito), se le dimensioni della Statale 342 dir sono adeguate (e certo che no, non è stata ampliata di un metro). A mio avviso la madre di tutte le domande - che va oltre ed anzi ignora politica e partiti - è questa: c'era davvero bisogno di realizzare un nuovo centro commerciale?
Quando si prende una decisione si valutano pro e contro. Sacrificare per sempre un pezzo di terra deve valerne la pena, proprio perché è una via senza ritorno. E il cemento deve essere un "male necessario", non certo un modo per riempire una tantum le casse del Comune di turno. Quindi, mi si risponda al quesito: quali immensi vantaggi porterà questo nuovo complesso se, per realizzarlo, è stata sacrificata una così vasta area verde?
Prendiamo la tipologia di insediamenti commerciali che si sono insediati. C'è la solita catena di hamburger della quale è difficile sostenere che il territorio sentisse la mancanza. Ce ne sono altre a stretto giro di posta (a cominciare da una a 300 metri) e i locali di quel genere sono proliferati in pochi anni, da Beverate alla stessa Osnago. Quindi, la risposta è che no, che non era indispensabile. C'è poi quell'altra catena di elettronica: nel raggio di un chilometro (ex Auchan e via Turati a Merate per limitarci alle più conosciute) ce ne sono tre che vendono gli stessi identici prodotti. Era necessario saccheggiare quel terreno per piazzarne un'altra? Fate voi.
Per non parlare degli altri negozi, dall'abbigliamento agli articoli per la casa fino al cibo per animali. Sono le tipologie maggiormente cresciute in questo decennio.
Quindi, assodato che è difficile sostenere l'assoluta necessità di un sacrificio collettivo per un bene altrettanto comune, resta l'altra questione. Perché? E qui, credo, entri in gioco la classe politico-amministrativa dei nostri territori. "Vendono" un pezzo di terra per una manciata di oneri di urbanizzazione che oggi ci sono e domani non ci saranno più. Ma resteranno le automobili, il traffico, l'inquinamento e - Dio non voglia - i capannoni dismessi quando qualcuno di quegli imprenditori deciderà che non è più il caso di tenere aperto. Io la chiamo avidità amministrativa, ingordigia burocratica e, comunque, scarsa lungimiranza. Non è questione di colore politico, di chi ha deciso che quel terreno dovesse diventare un ideale completamento (sic) tra l'area Decathlon e il centro commerciale di Cernusco che si trova a 300 metri di distanza. No, banalmente è una questione culturale. Non si riesce a capire che un pezzo di terra - piccolo, sporco e cattivo ma pur sempre terra - è sempre meglio di un nugolo di capannoni. Tutto qui e non tirate in ballo l'ecologismo o l'economia di mercato.
Ci sarebbe l'aspetto economico-occupazionale della vicenda ma mi scappa quasi da ridere nel leggere simili giustificazioni, e mi limito a pensare che siano inventate al momento. Perché se quegli amministratori che le pronunciano ci credessero davvero sarebbe preoccupante. Quel centro commerciale andrà ad assorbire una forza lavoro non esattamente paragonabile al Catenificio di Merate dei tempi d'oro ma, si tratta comunque di forza lavoro inevitabilmente precaria e, probabilmente, sottratta ad altri negozi del settore. Ma, azzardando pure l'ipotesi di una crescita complessiva dell'offerta - facciamo 30, facciamo 50? - rimane il fatto che i nuovi insediamenti commerciali - proprio perché direttamente concorrenziali rispetto a quelli esistenti - andranno a sottrarre fette di mercato ai loro competitor. I quali, se l'economia non è cambiata nel frattempo, finiranno per ridurre la forza lavoro. Il saldo, nella migliore delle ipotesi, sarà in pari e non ci vengano a parlare di investimenti occupazionali.
Sia chiaro, il discorso non vale solo per il Marasche o solo per le attività industriali. Ma, ancor prima, vale per le colate di cemento a scopo residenziale. Quante erano necessarie? Quante servivano davvero al paese? Quante porteranno ricchezza e non già nuovo traffico, nuove richieste di servizio, nuovo smog? E valeva sempre la pena di sacrificare l'unica cosa ricevuta immeritatamente in dono? Tra il laghetto di San Rocco e Cassina, giusto per fare un esempio meratese che conosco, cominciò tutto con quale villetta a schiera. Che poi divennero due, tre, quattro, un piccolo villaggio. Sempre più grande, sempre più esteso. Tra pochi anni sarà un unico susseguirsi di abitazioni fino al centro di Cassina Frà Martino perché spunterà un amministratore a dirci che, insomma, non resta che un fazzoletto di terra, un ideale piano di completamento di una zona già urbanizzata.
La cosa più esilarante è che poi si inventano la festa dell'albero. Piantano un povero tiglio e la spacciano per il ritorno della foresta amazzonica. Quanta ipocrisia, quasi quasi è meglio la mia Merate che gli alberi li passa per l'accetta in stile "Attila era un dilettante" ma, almeno, evita di festeggiarli un giorno l'anno.
Alessandro M. - Merate
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