Pronto Soccorso: una fiaba per “sdrammatizzare” mettendo il paziente al centro di ogni problema, fa “parte del mestiere

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Pino Bollini
Caro direttore,
assolutamente non entro nel merito di episodi riportati dalla stampa locale e non ho elementi da potermi esprimere sui fatti o sulle persone coinvolte. In modo molto semplice vorrei condividere le emozioni che ho riprovato leggendo l’episodio avvenuto in Pronto Soccorso.

Vi racconto una “fiaba” di tanti anni fa. Ho lavorato in PS poche decine di anni e certe situazioni a furia di ripetersi mi hanno insegnato qualcosa di estremamente pratico.
 
Quando il medico entra in empatia con il paziente e ritiene di aver intuito il “genere di soggetto” che ha davanti, si adopera al massimo per essergli utile; per servirlo (non asservirsi alle sue richieste, ma ai bisogni oggettivi da soddisfare). Così può succedere di sbagliare anche in ciò che si dice, se si sbaglia a comprendere chi si ha di fronte. Vorrei concretizzare con un esempio e fra i tantissimi ne prendo uno tra quelli che erano i più frequenti.

Un signore di mezza età arriva in PS per un dolore toraco-addominale convinto di non aver digerito. Gli accertamenti mostrano una seria situazione ischemica del muscolo cardiaco (infartaccio, accio, accio). Il soggetto è chiaramente impreparato alla notizia. Come comunicargliela? La mattina come sempre si è svegliato, lavato, fatta colazione e andato al lavoro … ora è, tranquillo o forse un po’ ansioso; è davanti al medico sostanzialmente per sentirsi rassicurare di aver solo fatto una bella indigestione. Come dirgli, senza provocargli ulteriori danni, quale è la realtà?

Al paziente si deve sempre dire tutto, ma scegliendo i tempi e modi più opportuni. In questo caso, uno dei tanti modi può essere quello di sparare la notizia in modo diretto e professionalmente asettico: “lei deve ricoverarsi in una unità coronarica poiché la sua vita è altamente in pericolo”. Si, in alcuni, ma pochissimi soggetti, può funzionare perche in queste situazioni i pazienti cercano disperatamente sicurezze e si trovano in un momento di estrema fragilità. In PS il “paziente grave” (mi verrebbe da dire quello “vero”) è nudo e non solo fisicamente; i suoi meccanismi psicologici di difesa sono fragili. Allora il crudo racconto fatto da un medico che si mostra guardare dall’alto del suo sapere e che distribuisce disposizioni categoriche, può anche rassicurare e far ritenere che lui, il superuomo, di certo salverà la situazione. Tuttavia, se il signore del nostro esempio non è di questo genere, cosa molto probabile, e il medico sbaglia ad “inquadrarlo”, le conseguenze possono essere veramente serie. Dare questo genere di notizia (alto rischio per la vita) diventa difficile e pericoloso. La regola che mi ero dato e che occorra sempre cercare di “sdrammatizzare”; anche nelle situazioni apparentemente più semplici. Perché in realtà non ci sono mai situazioni semplici per i “veri” pazienti dei PS. Occorre l’empatia per cercare di capire come loro stiano vivendo, o potrebbero vivere, quella loro situazione. Questo soprattutto se la situazione è oggettivamente proprio banale e si sa che lo stesso paziente sarà il primo a rendersene conto più tardi, dopo essere stato protetto e rassicurato e aver recuperato le proprie difese psicologiche.
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In fondo, quello che fa la differenza tra fare un mestiere o esercitare una professione (qualunque essa sia) è il come la si esercita (prima chi? Io o l’altro?).

Tornando al nostro signore, infartuato che non sa ancora di esserlo, occorre comunicarglielo sapendo che una notizia del genere, che giunge inattesa a ciel sereno, creerà certo una grande paura che a sua volta spesso produce una “bella” scarica di adrenalina, che agendo sul muscolo cardiaco già bruscamente sofferente per l’ischemia (mancanza di ossigenazione), può indurre con facilità delle pericolosissime aritmie che sono a loro volta la causa dell’arresto cardiaco.

Il “vero” medico sa che deve dire la verità ma anche che deve addolcire la pillola a misura del paziente; anche a scapito della “medicina difensiva”. Quindi si affida alla sua empatia che lo aiuti a cogliere il genere di persona che è questo signore fino allora sconosciuto a lui.
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Io in situazioni di questo genere cercavo d’instaurare un rapporto di amicizia con il paziente, così come se ci si fosse conosciuti da vecchia data (il messaggio che tra le righe desideravo passare era: hai trovato un amico, puoi fidarti). Chiedevo al paziente se potevo dargli del tu; poi gli confessavo una mia certa incompetenza in cardiologia e che nel suo caso ritenevo ci potesse essere qualcosa di piccolo, ma proprio piccolo, che non andava bene. Nel dubbio preferivo decidere di ricoverarlo in unità coronarica piuttosto che dimetterlo o metterlo in osservazione in altro reparto. Quindi mi raccomandavo che, se qualche cardiologo gli avesse chiesto chi era quell’incompetente che lo aveva mandato li, avrebbe dovuto rispondere dando un nome che spiegavo non essere il mio, ma quello di un altro ignaro collega dell’ospedale. Risultato: paziente informato, mantenuto tranquillo nei limiti del possibile e convinto di aver trovato una persona e non un asettico disumano robot. Forse anche lui, il paziente, fingeva di credere alla mia fiaba. Stava al gioco come se quello che proponevo fosse un estremo meccanismo di difesa e di fuga da una realtà minacciosa; cercando di negare l’evidenza allontanandola nel dubbio. Non lo so come funzionasse esattamente questa “fiaba di salvataggio”; ma ho visto ridursi gli arresti cardiaci da quando cominciai a raccontarla.

Lo “sdrammatizzare” mettendo il paziente al centro di ogni problema, fa “parte del mestiere”; forse è uno dei tanti “segreti” della “professione di medico in prima linea” (ER nelle sue prime puntate sembrava un corso di aggiornamento), in Pronto Soccorso. Questo genere di professione non è una specialità bensì una specificità che il vissuto insegna e, come sempre, il miglior medico è quello che sbaglia meno (sbagliare mai è impossibile) Ma tutto questo è un altro discorso di un’altra epoca, quando il “Pronto Soccorso” era tale e si sarebbe offeso vedendo che oggi con lo stesso nome viene chiamata un’altra organizzazione che definirei in “senso tecnico” (quindi assolutamente non offensivo): “una discreta imitazione del surrogato di un poliambulatorio H24 ove l’urgenza emergenza è così diluita nella casistica totale da divenire estremamente difficile il riconoscerla”.

Grazie a tutti, in specie a quei pazienti che mi hanno regalato inenarrabili emozioni.
Dr. Giuseppe “Pino” Bollini, ex primario del P.S. del Mandic
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