Imbersago: Aldo Carpi salvato da Gusen per la sua umanità

Nella serata di venerdì 26 gennaio tanti Imbersaghesi si sono riuniti in municipio per ricordare, in occasione della giornata della memoria, la storia del pittore e scultore Aldo Carpi, attraverso le lenti della nipote Susanna Carpi.
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“Mio nonno è morto quando ero molto piccola, dunque io non l’ho conosciuto da adulta, con la testa di una persona che può ragionare. Per cui ho sentito il bisogno di capire attraverso la ricerca chi fosse” ha esordito la nipote, che ha condotto i numerosi presenti in un viaggio nel novecento per tentare di capire il “miracolo” di una persona che è riuscita a conservare, attraverso schizzi e scritti, la sua umanità seppur trovandosi in una situazione estremamente tragica. Il consigliere Francesco Cagliani ha sottolineato come, quello che nel 1971 è stato pubblicato come “Diario di Gusen”, sia un unicum nel suo genere, una testimonianza diretta e completa di un deportato sopravvissuto alla prigionia. Il pittore infatti fu catturato a Mondonico nel gennaio del 1944 e trasferito In Austria, a Gusen, un campo satellite del lager di concentramento di Mauthausen, insieme ad altri 3.137 italiani. Durante la sua permanenza, che terminò nel maggio del 1945 con la liberazione del campo da parte degli americani, riuscì a recuperare dei fogli e abbozzare disegni e lettere alla famiglia, rilegati poi, con l’aiuto del figlio Pinin, il padre di Susanna, nel diario consultabile ancora oggi.

Nonostante fosse ebreo, – la famiglia era scappata tra il ‘500 e ‘600 dai possedimenti spagnoli a seguito del decreto del Re di espulsione degli ebrei da tutti i territori regno – Carpi non venne arrestato per la sua origine, bensì per aver difeso una sua alunna israelita dai maltrattamenti dei docenti e dei compagni. Dal 1930 invero, era insegnante di pittura all’Accademia di Brera, dalla quale fu acclamato come direttore al ritorno da Gusen. Carpi venne catturato in “età avanzata”, quando aveva 58 anni e per questo ricevette un trattamento meno crudele: non lavorò nello scavo di gallerie sotterranee, ma venne assegnato a mansioni più leggere e, per il suo grande talento, selezionato come pittore di commissione per l’SS. “Dipingere nel lager, con la testa nel sacco, significa non poter rappresentare la vita, tacere cos’è l’esistenza nel campo, diventare ciechi davanti alle persone che saranno sommerse e di cui non ci sarà diretta testimonianza” riferisce lo stesso Carpi, descrivendo la sua posizione. Il milanese venne assegnato alla sala medica, gestita da deportati polacchi, dove racimolò i fogli sui quali poté immaginare di comunicare con altri, oltrepassare il filo spinato e fuggire con la fantasia, in una pratica creativa ed emotiva che gli permise di salvarsi. Il pittore si rivolgeva alla moglie e ai sei figli, disegnandoli e auspicando salvezza, sicurezza, amore e un ritorno alla quiete e unione della vita famigliare.
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Oltre alla reminiscenza della quotidianità, su queste pagine Carpi ha realizzato delle vere e proprie opere e descritto con dettagli situazioni di dolore e sofferenza, che fungono come atto di accusa al Nazismo. Attraverso il ritratto a matita de “Il ragazzo Russo”, il pittore rappresenta il “Vergasung”, il massacro con gas operato sugli inabili al lavoro e sui malati gravi. Il giovane dipinto, era stato gettato in una stanza in attesa di essere condotto alla camera a gas, in uno stato di tremenda agonia. “Egli era solo, nudo, disteso al suolo al centro della stanza, visibile da quattro porte…due occhi piccoli neri guardavano in alto e luccicavano sotto le palpebre: c'era del pianto, sotto, pianto senza lacrime. Una bocca semiaperta nel volto abbronzato, pareva parlare tutto il viso pareva parlasse, non a noi, non a nessuno, a Dio…era una preghiera, una domanda di pietà, di misericordia, di Grazia. Mi venne la voglia di abbassarmi e di fargli il segno della croce sulla fronte”. Queste parole di Carpi delineano perfettamente la sua situazione nel campo: risparmiato da trattamenti disumani ma impotente di assistere e aiutare i prigionieri in difficoltà. Il soccorso ai compagni era difatti vietato e severamente punibile. Il carbone su carta “Passa la zuppa al Revier Gusen I” fa percepire la situazione del blocco “Bahnhof” (stazione), adibito ai malati, spesso dissenterici, lasciati a morire senza cure, acqua e cibo di cui Carpi vedeva le condizioni e sentiva i lamenti. La figura scheletrica è simbolo di tutti coloro che sono andati incontro a questa terribile fine, tra cui prefigura l’operaio dell’Alfa Romeo di Milano Alfredo Borghi, le cui ultime parole sono state: “Carpi damm de bev!”.
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Rientrato in Italia, Aldo Carpi non volle più ritornare su quelle pagine che avevano “alleggerito quello che il cuore non riusciva a sopportare”, venne intervistato solamente una volta dal figlio Pinin per ricostruire l’intero contorno della narrazione del lager per poi tacere sulla sua terribile esperienza. Dopo la guerra il pittore ha dipinto la serie dei Carabinieri, le cui opere si presentano come la variazione dello stesso tema: “un innocente viene portato via da due guardie che hanno uno sguardo più che crudele: vuoto, burocratico e assente”. Con questi quaranta disegni Carpi ha voluto trasmettere il potere ottuso, che esegue ordini portando una sofferenza atroce a persone che con la loro esistenza non hanno provocato danni a nessuno. Un ennesimo tentativo di condanna al regime Nazista al quale riuscì a sopravvivere e perciò riportare, grazie al suo talento, con grande sensibilità e tatto, gli immensi dolori causati a milioni di persone.

Un quadro della serie dei Carabinieri, in particolare la versione dell’arresto di Pinocchio, sarà visitabile al “Museo della Memoria” di Carpi (comune del modenese dal quale deriva il cognome acquisito dalla famiglia del pittore) fino a maggio.
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Ilaria Biffi
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