Morto il venticinque aprile 1945

Enrico Magni
Sono qui dal marzo del 1945. Sono tra questi cespugli, sassi, incastrato in questo incavo di terra tra cielo e rocce. Del mio corpo sono rimasti dei frammenti di ossa. Sono un disperso, uno dei tanti partigiani introvabili. Stavo scendendo dal monte da solo quando un giovane cecchino repubblichino mi ha sparato. Non l’avevo visto, ero ormai convinto che la zona fosse libera. Mi ha colpito alla gamba destra, sono scivolato, ruzzolato, sono precipitato in fondo al canalone. Sono qui d’allora. Il mio corpo nel tempo si è consumato, si è decomposto, sono rimaste le ossa. Il freddo, la neve, l’acqua, il sole hanno fatto la loro parte. In inverno, accanto a queste ossa, spuntano dei bucaneve, mi fanno compagnia, rallegrano il pezzo di verde; in primavera, maggio, ai lati crescono dei ciclamini e qualche volta delle primule, un raggio di sole mi scalda, mi asciuga dall’acqua e dal freddo invernale. Non posso lamentarmi, qualche scoiattolo si prende gioco di me, li lascio fare, li sto a guardare.

La staffetta ci aveva avvisato che Torino, Milano stavano per essere liberate dai nazifascisti. Ho aspettato qualche giorno prima di lasciare il rifugio, dovevo nascondere e sotterrare le armi. Mi avevano ordinato di stare lì, di aspettare, di assicurarmi che la zona fosse libera dai fascisti. C’erano dei repubblichini che infaticabilmente continuavano a cercarci, erano giovani fissati, non volevano credere che il Duce potesse arrendersi e cedere il comando agli Alleati e al CLN. Erano convinti di arroccarsi al nord costruendo la repubblica in Valtellina. Erano le informazioni che avevo.

Da molti mesi giravo come una volpe; conoscevo tutti i piccoli pertugi per nascondermi. Ero rimasto solo. Il mio compito era di controllare il nascondiglio. Mi sentivo anche sicuro, avevo il cibo, avevo imparato a posare le trappole per catturare qualche lepre. Aspettavo che qualche partigiano venisse a cercarmi per scendere a valle e lasciare quella montagna ispida e scorbutica. L’attesa si faceva pesante. Avevo nascosto le armi, poca cosa.

La notte era ancora fredda, anche se il cielo era stellato, le solite nubi comparivano e sparivano nell’arco di pochi secondi formando immagini transitorie. Evitavo di tenere acceso il fuoco per il fumo. Nelle serate piovose mi permettevo di arrostire dei pezzi di lepre, che avevo lasciato frollare a un filo per qualche giorno per fare spurgare la puzza di selvatico. Avevo voglia di sedermi sulla sedia di casa mia e bere una tazza di caffè caldo con una goccia di vino. Era il sogno che mi frullava di più nella testa. Mi vedevo seduto, accanto alla stufa, con mia madre e mia sorella a fare colazione.

Mio padre era morto in Grecia, dopo l’otto settembre, per mano dei tedeschi, si era rifiutato di deporre l’arma, di arrendersi. Era un ufficiale. Ero in terza liceo. Mi mancava poco per chiudere con la scuola e iscrivermi all’Università. Non avevo ancora deciso cosa fare. Ma da qualche tempo ero irrequieto. La scuola poteva aspettare. La situazione era intollerabile, i repubblichini erano violenti, avevo sentito delle deportazioni. Una sera, aspettai che mia madre e mia sorella andassero a dormire, lasciai un biglietto sul tavolo, me ne andai. Non sono più ritornato. Era pericoloso per loro e per me.

Dopo il 25 aprile del 45, dei compagni di scuola, dei partigiani vennero a cercarmi, batterono tutta la zona, ma il corpo era scivolato dentro l’insenatura, era impossibile vederlo. Ci riprovarono. Per una decina d’anni, ogni anno, per il 25 aprile, i miei compagni di scuola continuarono a cercarmi. Mia madre e mia sorella misero la mia foto sulla tomba di mio padre. La foto ricordo placava la loro tristezza, disperazione. Avevano un posto dove depositare le loro lacrime.

Non passa anno che la mia compagna di scuola, sposata e con dei figli, il 25 aprile, non metta dei ciclamini accanto alla mia fotografia. Con lei avevo fatto delle lunghe camminate in montagna, passato ore a parlare del nostro futuro. Non ha mai dimenticato questa montagna, ha sempre raccontato ai suoi figli di me, della scelta che avevo fatto. Adesso è anziana e racconta ai nipoti la stessa storia.  

Morto il venticinque aprile del quarantacinque.
Dr. Enrico Magni
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