Per la 19esima volta - assicurando già che non mancherà nemmeno nel 2016 per festeggiare la cifra tonda, proprio in occasione tra l'altro anche del suo 50esimo di ordinazione sacerdotale - nel tardo pomeriggio del 31 dicembre il cardinal Gianfranco Ravasi ha raggiunto la Bernaga per celebrare presso il convento delle monache romite l'ultima santa messa dell'anno solare, "preludio" alla giornata della pace fatta coincidere da Papa Paolo VI con il primo gennaio. Ad accoglierlo in una chiesina insolitamente non gremita, i fedeli e soprattutto le religiose che, come sempre, hanno assistito alla funzione "protette" dalle grate, allietando la stessa con le loro esili voci, prestate ai canti e ai salmi previsti dalla liturgia.

Traendo ispirazione dalle letture proposte, l'arcivescovo originario di Merate ha incentrato la propria omelia, studiata ma pronunciata come sempre a braccio, su un elemento che, seppur secondario, fa da filo conduttore ai testi selezionati per l'ultima funzione dell'anno: la voce, parola di origine latina "nata" dal verbo "vocare", conservato poi nella lingua italiana quale base per altre espressioni.
"Per oggi ho scelto 4 verbi che hanno nel loro cuore la voce e mantengono il verbo vocare" ha così spiegato il presidente del Pontificio consiglio della Cultura, svelandoli ad uno ad uno:
invocare, provocare, convocare e avocare.Il primo
"è il verbo della preghiera, la domanda rivolta verso l'alto, verso Dio" con un doppio registro:
"l'inno di lode, cioè la gioia, la festa, la felicità lanciata verso il Cielo" ma anche un significato più cupo, "la supplica". Ecco dunque come l'invocare racchiude in sé entrambi i "momenti essenziali dell'esistenza che oscilla tra la gioia e il dolore. Il tessuto della nostra vita ha fili d'oro ma anche tanti fili neri..." ha così sostenuto il cardinal Ravasi, invitando i presenti a invocare il Signore non solo quando si è in balia delle tenebre ma anche negli attimi felici, quale ringraziamento per poi presentare il secondo verbo selezionato: "provocare", un
"verbo tendenzialmente cattivo", ha sostenuto ricordando come
"la provocazione è una sfida", "la spezia quotidiana di certi politici, la volgarità che entra nella televisione e nel linguaggio comune",
"la parola aggressiva, stupida" ma
"è anche qualcosa di necessario: provocare è anche scuotere la coscienza, generare inquietudine, elemento della Fede".

La provocazione dei giusti - ha quindi detto ricordando il martirio e l'esperienza della Chiesa in terre lontane -
"diventa inquietudine per le coscienze spente". E' sinonimo invece di attenzione al prossimo "convocare", una parola che indica lo
"stabilire una comunità" e si oppone dunque a
"avocare che è invece la solitudine. In italiano da questo verbo è nato il termine avvocato che è colui che chiami quando hai bisogno di difendere te stesso. Avocare incarna quindi il dramma dell'impossibilità di vivere insieme" ha spiegato, raccontando poi un'esperienza personale a conclusione dell'intero discorso. La memoria è tornata a quando, da sacerdote novello e studente ancora a Roma, ogni primo venerdì del mese faceva visita agli ammalati di una parrocchia di periferia. Nel comunicare infatti ad un anziano senza più nessuno al mondo, il suo imminente trasferimento a Milano si sentì rispondere non
"come è brutto restare soli" bensì
"come è brutto non avere più nessuno da aspettare" e dunque - ha asserito l'alto prelato rivolgendosi ai fedeli -
"come è brutto non avere nessuno da convocare, provocare e invocare".
Ed ha pescato poi, ancora una volta, dal proprio vissuto per un augurio di cuore per il 2016. Rammentando di essere stato recentemente nel monastero di santa Teresa d'Avila, in Spagna, ha riferito di uno scambio di battute con la Badessa che gli ha fatto da guida, mostrandogli l'alloggio della religiosa nata 500 anni fa, dove ancora
oggi le consorelle mantengono tutto in assoluto ordine e pulizia.
"Come mai ti occupi così tanto delle cose materiali di questo angolo?" chiese a suo tempo una giovane alla santa.
"Vi lascio la risposta come mio augurio: lo stesso impegno che do all'eterno lo do anche alle cose effimere. Ecco, la grandezza di una persona si misura anche nella quotidianità. Il divino si annida anche nell'effimero, nel quotidiano in cui saremo immersi nei 366 giorni del 2016".
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